Il personale dipendente dell’Agenzie delle entrate può essere sottoposto a licenziamento nel caso di violazione delle norme di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa. 

Fabrizio Girolami 

Il pubblico dipendente in servizio presso le Agenzie fiscali, nell’adempimento delle sue mansioni, deve informare la sua condotta all’osservanza dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento nel rispetto delle regole contenute nello “Statuto dei diritti del contribuente” (di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212) e nel contratto collettivo del comparto e, in caso di violazione degli stessi, può essere sottoposto a licenziamento disciplinare.

Lo ha affermato la Corte di Appello di Milano con decisione depositata il 29 maggio 2015, confermata dalla Cassazione con sentenza 28 marzo 2017, n. 7926, in relazione alla vicenda di un dipendente in servizio presso l’ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate di Rho, con mansioni di addetto all’area controllo settore registro, la cui condotta – sanzionata con l’intimazione del licenziamento da parte dell’Agenzia (a seguito di un’indagine condotta dal servizio di Audit e Sicurezza della Direzione Generale) – era consistita nella gestione irregolare e anomala di alcune pratiche a favore di alcuni studi professionali, nell’effettuazione di attività di consulenza fiscale a favore di terzi soggetti privati (ai fini della compilazione e presentazione delle dichiarazioni dei redditi) e, infine, nell’indebita comunicazione di informazioni riservate, ottenute tramite interrogazione dell’Anagrafe tributaria, ad uno studio notarile presso il quale svolgeva l’attività lavorativa il proprio coniuge.

Il giudice di appello, valutando tutte le circostanze del caso (e, in particolare, i parametri dell’intensità dell’elemento intenzionale della condotta, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore e del numero e gravità dei singoli comportamenti azionati), ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Milano nel primo grado del giudizio, ritenendo la sanzione espulsiva irrogata dall’Agenzia come “proporzionata” rispetto alla gravità dell’infrazione, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2106 del codice civile, norma applicabile anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in virtù dell’espresso richiamo operato dal co. 2 dell’art. 55, D.Lgs. n. 165/2001, in materia di “responsabilità, infrazioni e sanzioni, procedure conciliative”.

Nello specifico, la Corte milanese ha ritenuto che la condotta del dipendente fosse palesemente lesiva delle norme poste a presidio dei canoni di “buon andamento” e “imparzialità” dell’azione amministrativa dettate dal D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18 (recante il “Regolamento per il personale delle Agenzie fiscali”) e, in particolare, del disposto di cui all’art. 4 in materia di “incompatibilità e conflitto di interessi”, il quale dispone che ,“fermo restando quanto previsto dalla normativa di legge e di contratto in materia di incompatibilità e di cumulo di impieghi”, il personale delle agenzie fiscali non può svolgere “attività o prestazioni che possano incidere sull’adempimento corretto e imparziale dei doveri d’ufficio” e non deve “esercitare, a favore di terzi, attività di consulenza, assistenza e rappresentanza in questioni di carattere fiscale, tributario e comunque connesse ai propri compiti istituzionali”.

La Cassazione ha confermato questo articolato iter logico-motivazionale, rigettando di conseguenza le doglianze sul punto avanzate dal dipendente, ritenendo che le argomentazioni operate costituiscono il frutto una “valutazione di merito che in quanto basata su valutazione sufficiente ed esente da vizi logici è insindacabile in sede di legittimità”.

Il giudice di legittimità ha ritenuto altresì corretto il ragionamento operato dal giudice di merito sull’interpretazione del disposto dell’art. 55-bis, co. 4, del D.Lgs. n. 165/2001, in materia di “forme e termini del procedimento disciplinare”. In virtù di tale disposizione, ciascuna amministrazione pubblica, secondo il proprio ordinamento, è tenuta ad individuare l’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari (UPD, che ha il compito di contestare l’addebito al dipendente, di convocarlo per il contraddittorio a sua difesa, di istruire e concludere il procedimento nel rispetto dei termini di legge.

Più specificamente, ai sensi dell’art. 55-bis D.Lgs. n. 165/2001, il procedimento disciplinare deve concludersi entro il termine perentorio di centoventi giorni dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione. Nel caso di specie, in cui il procedimento si era concluso in data 3 maggio 2011 con l’irrogazione della sanzione espulsiva, la Corte milanese (con argomentazione confermata anche dalla Cassazione) ha ritenuto pienamente rispettato il termine previsto dalla norma, in quanto l’UPD dell’Agenzia aveva preso in considerazione – quale “dies a quo” per il computo del termine in oggetto – la data di acquisizione della segnalazione disciplinare trasmessa dal settore Audit e Sicurezza (12 gennaio 2011), assicurando così l’osservanza del termine perentorio dei 120 giorni rispetto alla data di irrogazione del licenziamento (avvenuto, come detto, il 3 maggio 2011).

Licenziamento disciplinare per inadempimento dei doveri di ufficio.
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