Non è sufficiente che la malattia del dipendente sia meramente connessa alla prestazione lavorativa per detrarla dal periodo di comporto, ma è necessario che, in relazione alla malattia stessa ed alla sua genesi, si configuri una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Nota a Cass. 27 giugno 2017, n. 15972

Francesca Albiniano

In linea di principio, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c. Tale nozione è comprensiva anche delle categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, che sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) previsto nel citato art. 2110.
Per detrarre l’assenza per malattia dal periodo di comporto, non è sufficiente che si tratti di malattia di origine professionale, meramente connessa cioè alla prestazione lavorativa, essendo necessario che “in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.”
Tale responsabilità (datoriale), peraltro, non è oggettiva, in quanto “va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento”.
Per altro verso, “incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi” (v. Cass. n. 22710/2015, n. 18626/2013, e n.13956/2012).

L’affermazione è contenuta in una recente sentenza della Cassazione (27 giugno 2017, n. 15972), che, in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza (v. Cass. n. 24028/2016, n. 26037/2014 e n. 7037/2011), ha specificato che gli oneri probatori che gravano sul datore di lavoro e sul lavoratore vanno modulati diversamente a seconda che le misure di sicurezza omesse:

  1. “siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici”. In questa ipotesi, il riferimento è alle misure di sicurezza c.d. “nominate” e “la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno”;
  2. oppure debbano essere ricavate dall’art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza. In tal caso, si tratta di misure di sicurezza c.d. “innominate”, e la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è “generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe” (Cass. nn. 34/2016, 15082/2014, 19826/2013, 8855/2013).

La Corte ha, pertanto cassato la sentenza di merito la quale, disattendo i suddetti principi, aveva ritenuto che il periodo di malattia dovesse essere escluso dal periodo di comporto in ragione della affermata origine professionale della malattia e non aveva compiuto alcun accertamento in ordine alla addebitabilità della ricaduta/recidiva (della malattia conseguita all’infortunio sul lavoro) alla responsabilità della società datrice di lavoro (ai sensi dell’art. 2087 c.c.), né aveva indagato sull’eventuale omissione, da parte del datore di lavoro, dell’adozione delle misure necessarie per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore.

Malattia professionale, comporto e responsabilità datoriale
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