La scelta dei dipendenti oggetto di un licenziamento collettivo per riduzione di personale va estesa anche ai dipendenti di equivalente professionalità. Si configura un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. quando, in un appalto di servizi, un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati

Nota a Trib. Torino 12 agosto 2017, n. 15768

Paolo Pizzuti

I diversi principi base della disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale sono stati analizzati dal Tribunale di Torino 12 agosto 2017, n. 15768, il quale ha esposto una serie di rilevanti osservazioni che è opportuno esaminare nel dettaglio.

Secondo la giurisprudenza consolidata, l’oggetto del sindacato giurisdizionale sul licenziamento collettivo (diversamente da quanto accade per il licenziamento individuale) non riguarda il motivo della riduzione di personale, bensì soltanto la correttezza della procedura sindacale di controllo preventivo dell’operazione e l’imparzialità della scelta dei lavoratori da licenziare.

Il giudice deve cioè verificare sia il rispetto delle regole procedurali contenute nell’art. 4, L. 23 luglio 1991, n. 223, che la correttezza dell’applicazione dei criteri concordati in sede sindacale o, in mancanza di accordo, i criteri (in concorso fra loro) previsti dall’art. 5, L. n. 223/1991, vale a dire: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative.

Presenza di accordo sindacale. Circa l’ambito di applicazione di tali criteri, la giurisprudenza è costante nell’affermare che “la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l’oggettiva limitazione di queste esigenze, e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata” e che, dunque, “non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative” (Cass. n. 17177/2013).

Sempre secondo la giurisprudenza, non può condurre a diversa conclusione neppure:

  • il rilievo che “il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente all’unità soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo, le cui modifiche competono esclusivamente all’imprenditore e sono sottratte al sindacato giurisdizionale”;
  • né la considerazione dell’elemento di “incertezza, fonte di ulteriore squilibrio negli assetti aziendali, costituito dalla impossibilità di conoscere a priori se il lavoratore avente diritto a mantenere il posto di lavoro sarà disposto ad accettare il trasferimento in altra sede” in quanto sono “argomenti estranei alla voluntas legis, quale chiaramente desumibile dal tenore testuale dell’art. 5″;
  • e neanche profili riconducibili all’alea “connessa agli effetti dell’operatività dei criteri legali sussidiari” rispetto alla gestione concordata della messa in mobilità dei lavoratori, la quale risponde proprio “all’esigenza di adattamento dei criteri di individuazione del personale in soprannumero alle condizioni concrete dei processi di ristrutturazione aziendale” (Cass. n. 17177/2013).

In sintesi, dunque, qualunque delimitazione dell’area di scelta dei lavoratori da espellere è soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative che la giustificano.
Tali esigenze inoltre vanno puntualmente allegate e comprovate dal datore di lavoro (Cass. n. 2535/2009).

Assenza di accordo sindacale. Qualora manchi (come nel caso di cui trattasi) l’accordo sindacale, secondo la giurisprudenza i criteri di legge devono essere osservati in concorso tra loro. In tal caso,  il datore di lavoro è tenuto ad una valutazione globale dei criteri stessi, anche se il risultato comparativo può “accordare prevalenza ad uno solo di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecniche e produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione di personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie” (Cass. n. 2188/2001).

Sempre in base all’orientamento giurisprudenziale consolidato, l’onere di provare di aver effettivamente compiuto la scelta dei lavoratori licenziati applicando in modo corretto i criteri di scelta – siano essi concordati o di legge – grava sul datore di lavoro e un ruolo determinante al riguardo è rivestito dalla comunicazione di chiusura della procedura prevista dal co. 9 dell’art.4, L. n. 223/1991.

La stessa previsione in base alla quale il provvedimento espulsivo debba avere ad oggetto “l’elenco dei lavoratori licenziati, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1”, secondo il Tribunale di Torino, induce a precisare che a tal fine” non è sufficiente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazione dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, né la predisposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri, poiché vi è necessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l’individuazione dei dipendenti da licenziare” (Cass. n. 3603/2010), di tal che, se il datore di lavoro comunica il criterio di selezione adottato, indicando le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta, il prestatore può contestare che la scelta sia stata attuata con puntuale applicazione di tale criterio. Diversamente, qualora il datore di lavoro comunicasse un criterio vago, il dipendente sarebbe privato della tutela di legge, in quanto la scelta effettuata dal datore di lavoro non sarebbe raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato e l’impresa godrebbe di assoluta discrezionalità (certamente non voluta dal legislatore del ‘91) nell’individuazione dei lavoratori da licenziare (Cass. n. 18306/2016 e Cass. n. 10424/2012).

Il datore di lavoro deve perciò spiegare “in modo chiaro ed esaustivo come ha declinato in concreto il criterio – di per sé generalissimo – delle esigenze tecnico-produttive e come ha concretamente valorizzato il medesimo, l’anzianità ed i carichi di famiglia, illustrando dettagliatamente il peso attribuito a ciascuno di essi nella comparazione dei lavoratori” (Trib. Torino, in commento).

Nella fattispecie in esame, i giudici, hanno rilevato un primo profilo di illegittimità relativamente alla delimitazione della scelta dei lavoratori da licenziare al solo personale operante presso una singola entità produttiva, la Città della Scienza e della Salute di Torino: la società A.F. s.r.l. (ai sensi dell’art. 335 c.c.n.l. turismo), aveva, infatti, assunto, subentrando alla precedente datrice di lavoro nell’appalto della mensa per degenti e personale dipendente infermieristico e medico della Città della Salute e della Scienza di Torino.

Ciò, in considerazione della mancanza di “qualsiasi allegazione e offerta di prova del motivo per cui la scelta dei dipendenti da licenziare per ridurre gli esuberi esistenti presso la Città della Scienza e della Salute dovesse essere delimitata a coloro che operavano in quest’ultima e non potesse invece essere estesa anche ai dipendenti di equivalente professionalità che operavano negli altri appalti”. Sul presupposto della completa equivalenza e fungibilità tra gli addetti del medesimo profilo e livello che risultano operanti nei vari appalti, si sarebbe dovuto invece estendere (pena la violazione  dell’art. 5, L. n. 223/1991) l’ambito di scelta dei lavoratori da licenziare a tutti gli appalti (o quantomeno a quelli territorialmente limitrofi), mentre l’impresa ha arbitrariamente ed illegittimamente limitato al solo appalto della Città della Scienza e della Salute.

Il trasferimento d’azienda. I giudici hanno inoltre sottolineato come il datore di lavoro avesse illegittimamente disapplicato il criterio dell’anzianità dei dipendenti espulsi, osservando anche che il subentro della convenuta nell’appalto in questione costituiva in realtà un trasferimento d’azienda, ai sensi dell’art. 2112 c.c.. I lavoratori, infatti, a fondamento della loro pretesa hanno affermato di aver continuato ad operare negli stessi locali, utilizzando i medesimi strumenti di lavoro e con le medesime modalità organizzative ed operative. Essi, hanno perciò invocato l’applicazione a tale contesto del consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia Europea in merito ai requisiti di configurabilità del trasferimento d’azienda.

In particolare, il Tribunale ha richiamato i principi stabiliti dalla Cassazione (n. 24972/2016), secondo cui l’art. 2112 c.c. va inteso nel senso che “la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo intesi nei sensi di cui sopra e che dunque se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c. (pena un’ingiustificata aporia nell’ordinamento)”.

Per il trasferimento d’azienda, infatti, l’art. 2112 c.c. “postula che il complesso organizzato dei beni dell’impresa – nella sua identità obiettiva – sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio, dovendosi così prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l’imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione” e che “Il trasferimento d’azienda è pertanto configurabile anche in ipotesi di successione nell’appalto di un servizio, sempre che si abbia un passaggio di beni di non trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa” (così, tra le tante, Cass. n. 11918/2013).

L’affermazione si pone in linea:

a) con la direttiva UE n. 2001/23 (art.1, n.1) , secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”, e con il contenuto dell’art. 2112 c.c., laddove stabilisce, al comma 5, che “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda”.

b) Anche la Corte di Giustizia Europea, muovendo dalla definizione di azienda in termini di “complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata a perseguire un determinato obiettivo”, afferma che “per poter determinare se sussistano le caratteristiche di un trasferimento di un’entità economica organizzata, dev’essere preso in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo di impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno di elementi materiali, quali gli edifici e i beni mobili, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tali attività”, che “tali elementi costituiscono soltanto aspetti parziali della valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente”, che “ai fini dell’applicazione della direttiva 77/187 non è pertanto necessaria l’esistenza di rapporti contrattuali diretti tra il cedente e il cessionario, atteso che la cessione può essere effettuata per effetto dell’intermediazione di un terzo, quale il proprietario o il locatore” e che “il fatto che gli elementi materiali rilevati dal nuovo imprenditore non appartengano al suo predecessore ma siano stati messi a disposizione dal committente non può pertanto indurre ad escludere l’esistenza di un trasferimento d’impresa ai sensi della direttiva 77/187” (v. sentenza 20 novembre 2013, causa C-340/01 Abler e altri, richiamata da parte ricorrente e relativa proprio ad una vicenda di successione nell’appalto avente ad oggetto la gestione della mensa dell’ospedale).

In sintesi, come rileva il Tribunale di Torino, “la giurisprudenza nazionale ed europea è assolutamente pacifica nel ritenere irrilevante la sussistenza o meno di un rapporto contrattuale diretto tra l’imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione e, in particolare, il fatto che “gli elementi materiali rilevati dal nuovo imprenditore non appartengano al suo predecessore ma siano stati messi a disposizione dal committente”.

I giudici hanno anche:

  • evidenziato una “fortissima analogia” tra la vicenda sottoposta al loro giudizio e quella esaminata dalla sentenza 20 novembre 2013 nella causa C-340/01 (Abler e altri) – in cui, pure, l’appaltatrice subentrante aveva rilevato “i locali, l’acqua, l’energia elettrica e le piccole e grandi attrezzature (in particolare i materiali fissi necessari per confezionare i pasti e le lavatrici)” e la situazione era “caratterizzata dall’obbligo, esplicito ed essenziale, di preparare i pasti nella cucina dell’ospedale e quindi di rilevare tali elementi materiali”;
  • ritenuto di utilizzare nella loro decisione le considerazioni svolte dalla citata decisione della Corte di Giustizia in merito al fatto che “la ristorazione collettiva, richiedendo notevoli attrezzature, non può essere considerata un’attività che si fonda essenzialmente sulla mano d’opera” e “Il trasferimento dei locali e delle attrezzature messe a disposizione dall’ospedale, che risulta indispensabile alla preparazione e alla distribuzione dei pasti ai pazienti e al personale dell’ospedale, è sufficiente a caratterizzare, in queste condizioni, un trasferimento dell’entità economica;
  • osservato che “non è sufficiente ad escludere il trasferimento di azienda chiaramente delineato dagli elementi sopra evidenziati il semplice fatto che la convenuta abbia inserito l’organizzazione aziendale 4 figure apicali, modificato qualche menu e introdotto qualche nuova ricetta, cambiato qualche fornitore, stipulato nuovi contratti di assicurazione o acquisito nuove autorizzazioni amministrative. Si tratta infatti di modifiche di portata comunque estremamente ridotta e, come tali, certamente non in grado di alterare la fisionomia di quel complesso organizzato di persone e di elementi di per sé perfettamente in grado di realizzare il servizio di ristorazione appartato che la convenuta ha certamente acquisito da E. Esse peraltro costituiscono variazioni delle concrete modalità di esercizio dell’attività di impresa che l’imprenditore (seppure limitate, in contesti come quello di cui si discute, dalle stringenti disposizioni del capitolato d’appalto) è certamente libero di porre in essere nell’assumere l’esercizio dell’azienda dopo il suo trasferimento senza che ciò possa in alcun modo mettere in discussione ex post la natura di quest’ultimo”.

Da ultimo, la sentenza annotata rileva che, dal momento che il subentro della società convenuta A.F. s.r.l. nell’appalto del servizio di ristorazione della Città della Scienza e della Salute di Torino costituisce a tutti gli effetti trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., è necessario retrodatare l’instaurazione del rapporto interrotto dal licenziamento impugnato alla data di decorrenza che esso aveva con il precedente appaltatore, con conseguente applicazione della tutela prevista dagli artt. 18, co. 4, Stat. Lav. e 5, co. 3, L. n. 223/1991, essendo tale data, per tutti i ricorrenti, anteriore alla data del 7 marzo 2015 in cui è entrato in vigore il D.Lgs. n. 23/2015.

Criteri alla base del licenziamento collettivo e trasferimento d’azienda
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