L’esigenza di socializzazione e la partecipazione alla vita della comunità rappresentano elementi fondamentali per lo sviluppo della personalità e la tutela della salute del disabile. In questa linea, il concetto di assistenza assume un significato più ampio rispetto alla semplice e materiale accudienza del soggetto disabile.

 Cass. 27 novembre 2018, n. 30676

 Daria Pietrocarlo

L’efficacia della tutela legislativa della persona con disabilità (L. 5 febbraio 1992, n. 104) si realizza anche mediante una incisiva limitazione dei poteri del datore di lavoro nei casi in cui il lavoratore sia parte di una comunità familiare nella quale vi siano persone con disabilità che richiedano un impegno pregnante e gravoso da parte del familiare lavoratore (art. 33, co.3); impegno che viene garantito anche con l’inamovibilità di quest’ultimo in funzione del diritto  del congiunto con disabilità  ad un’assistenza (art. 33, co.5) che, secondo la giurisprudenza, non va intesa in senso restrittivo, limitatamente cioè alla sola attività di accudimento (Cass. n. 30676/2018).

In base all’art. 33, co.3, infatti, (a meno che il soggetto handicappato non sia ricoverato a tempo pieno) il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire, anche in maniera continuativa, di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa (qualora assista “persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti”). In riferimento al presente comma, v. Min. Lav. Interpello 20 maggio 2016, n. 20 e Interpello 26 giugno 2014, n. 19.

Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità.

Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente.

Il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado, va incluso anche il convivente (Corte Cost. 23 settembre 2016, n. 213).

E, secondo l’art. 33, co. 5. L. n. 104/1992: “Il lavoratore di cui al comma 3, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.

La giurisprudenza ha più volte evidenziato la centralità del ruolo della famiglia nell’assistenza del disabile (v. Corte Cost. n. 329/2011 e Corte Cost. n. 233/2005) e, in particolare, nel soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, quale fondamentale fattore di sviluppo della personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella sua accezione più ampia (v. fra le altre, Corte Cost. n. 19/2009, n. 158/2007 e n. 350/2003).

Il principio è ribadito dalla Corte di Cassazione (12 ottobre 2017, n. 24015, in questo Sito, con nota di K. PUNTILLO, Assistenza a familiare disabile e divieto di trasferimento), la quale precisa che il diritto all’intrasferibilità del prestatore senza il suo consenso deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che trascendono l’assistenza familiare e devono coesistere e bilanciarsi con altri valori costituzionali (v. Cass. nn. 25379/2016, 22421/2015 e 9201/2012). In particolare, il diritto di assistere con continuità un familiare disabile convivente deve essere interpretato in termini costituzionalmente orientati, alla luce dell’art. 3, co. 2, Cost. e della Carta di Nizza che, al capo 3 (rubricato Uguaglianza), riconosce e rispetta i diritti dei disabili di beneficiare di misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e la partecipazione alla vita della comunità (art. 26) e, al capo 4 (rubricato Solidarietà), tratta della protezione della salute, per la quale si afferma che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un alto livello di protezione della salute umana; nonché della Convenzione delle Nazioni Unite 13 dicembre 2006 sui disabili, ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009 (v. C. Cost. n. 275/2016) e dall’Unione Europea con decisione n. 2010/48/CE (v. Cass. nn. 12911/2017, 25379/2016 e 2210/2016).

In questo quadro, il necessario contemperamento di interessi e di diritti del lavoratore e del datore di lavoro, aventi ciascuno copertura costituzionale, impone di valorizzate le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore, salvaguardando “condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte (in tal senso, Cass. nn. 25379/2016 e 9201/2012)”.

Assistenza al disabile, inserimento sociale e ruolo della famiglia
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