L’assenza del nesso causale tra il recesso datoriale ed il motivo addotto a suo fondamento comporta la reintegrazione del dipendente in azienda.

Nota a Cass. 29 luglio 2020, n. 16253

Francesco Belmonte

In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la ritenuta mancanza di un nesso causale, tra le scelte aziendali e la posizione soppressa del singolo lavoratore espulso, “è sussumibile nell’alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, co. 7, L. n. 300/70, come modificato dalla L. n. 92/2012, la tutela reintegratoria attenuata.”

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione 29 luglio 2020, n. 16253, in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento economico di un dipendente giustificato dall’intervenuta cessazione dell’appalto in cui era impiegato.

I giudici di merito, nei precedenti gradi di giudizio, avevano reputato il recesso in questione illegittimo, con conseguente applicazione della tutela reale attenuata, ritenendo che la cessazione dell’appalto non potesse costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento, in quanto la società datrice non aveva dimostrato il collegamento eziologico tra la ragione organizzativo-produttiva posta a base del recesso e la soppressione della posizione lavorativa, atteso che il dipendente non era addetto esclusivamente né prevalentemente a tale appalto.

La Cassazione, investita della questione, si pone in linea con tali assunti, confermando l’illegittimità del provvedimento espulsivo e la tutela spettante al dipendente licenziato.

Tuttavia, i giudici di legittimità forniscono un’interpretazione estensiva che sembra aprire ulteriori spazi per il rimedio reintegratorio, riservato a specifiche e limitate ipotesi individuate dal legislatore del 2012.

In particolare, la L. n. 92/2012, graduando le tutele in caso di licenziamento illegittimo, «ha previsto al quarto comma del nuovo art. 18 una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al primo comma), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12 mensilità; al quinto comma dello stesso articolo è prevista, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima».

Per la Cassazione,  il discrimen tra le due tutele, in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, è descritto dal settimo comma dell’art. 18, secondo cui il giudice: “Può altresì applicare la predetta disciplina (n.d.r. quella di cui al quarto comma) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma (n.d.r. tutela indennitaria)”.

«Orbene, poiché il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra tutte le “ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il “fatto posto a base del licenziamento” non solo non sussista, ma anche a condizione che detta “insussistenza” sia “manifesta“, non pare dubitabile che l’intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici».

Ciononostante, la Corte sembra discostarsi da quanto esposto, affermando che il presupposto della reintegrazione non risiede nella «particolare evidenza dell’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, bensì è sussumibile nell’alveo di quella di portata generale per la quale è sufficiente che “non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo” oggettivo».

In altre parole, per la Suprema Corte, l’assenza di (qualsiasi) elemento caratterizzante e legittimante il recesso per giustificato motivo oggettivo (quindi non solo qualora la scelta aziendale non sia sussistente ed effettiva ed il nesso causale sia assente; ma anche nei casi in cui si assista ad una violazione dell’obbligo del repêchage, dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare nella medesima condizione oggettiva, e nell’ipotesi in cui non risulti veritiera la perdita dei requisiti oggettivi necessari al dipendente per lo svolgimento della propria mansione) determinerebbe l’applicazione della tutela reale attenuata in ragione di quanto “concesso” dall’art. 18, co. 7 (il giudice “può”…).

Tale assunto, che apre nuovi spazi per il rimedio in forma specifica, non solo contraddice quanto affermato in precedenza dallo stesso Collegio, ma si pone chiaramente in contrasto con la ratio sottesa all’intervento riformatore del 2012, di marginalizzare la tutela reintegratoria alle fattispecie (residuali) di più grave carenza del giustificato motivo oggettivo, rispetto alla tutela indennitaria che funge da regola generale.

Illegittimità del licenziamento economico: assenza del c.d. nesso di causalità e tutela spettante al lavoratore
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