Il mobbing deve essere punito con la medesima sanzione prevista per il reato di “atti persecutori”, ossia lo stalking.

Nota a Cass. 9 novembre 2020, n. 31273

Pamela Coti

Le condotte di mobbing possono integrare il reato di stalking, qualora la mirata reiterazione della pluralità di atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, cagioni uno degli eventi delineati dall’art. 612 bis c.p.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (9 novembre 2020, n. 31273) confermando la pronuncia del Tribunale del riesame di Torino volta ad applicare la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti dell’amministratore delegato di una società, in riferimento a condotte persecutorie plurime in danno di una delle dipendenti della società medesima.

Al riguardo, la Corte ha precisato che:

  • in materia di tutela delle condizioni di lavoro, l’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica ha delineato gli elementi caratterizzanti il mobbing lavorativo che si configura ove ricorra l’elemento oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intento persecutorio del datore medesimo (tra le altre, v. Cass. n. 12437/2018). Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva: per avere un’ipotesi di mobbing “non è condizione sufficiente accertare l’esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass. n. 10992/2020).”
    In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”;
  • le azioni persecutorie poste in essere ai danni del lavoratore e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia (artt. 571 e 572 c.p.) laddove il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, poiché “caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia” (Cass. n. 51591/2016);
  • inoltre, “la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose) configura il reato previsto dall’art. 571 c.p., mentre integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico” (Cass. 51591/2016, cit.).

Tale orientamento della Corte, incentrato sulla tutela dell’integrità psicofisica della vittima, non esclude – ma, anzi, conferma – la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui al citato art. 612-bis c.p., ove ricorrano gli elementi costitutivi di siffatta fattispecie.

Il delitto di atti persecutori (che è un reato abituale e di danno) è integrato dalla “necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso”. Pertanto, ciò che rileva è la “identificabilità di tali comportamenti quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi dannosi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie.”

Ne consegue che la condotta può esplicarsi anche con modalità atipiche, in qualunque contesto, purché sia in grado di ledere il bene tutelato: la libera autodeterminazione della persona offesa.

La Suprema Corte ha, così, sancito che le condotte di mobbing hanno rilevanza penale ed integrano il reato di stalking, previsto e punito dall’art. 612 bis c.p., ogniqualvolta incutono ansia e paura nel lavoratore che le subisce, tanto da indurlo a modificare le sue abitudini di vita.

Mobbing sul lavoro: sanzione equiparabile allo stalking
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