Le condotte dei “furbetti del cartellino” costituiscono grave violazione degli obblighi contrattuali
Nota a Cass. (ord.) 15 aprile 2021 n. 9930
Fabrizio Girolami
Come noto, nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l’art. 55-quater del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e s.m.i., al comma 1, prevede l’applicazione della sanzione disciplinare (espulsiva) del licenziamento senza preavviso del lavoratore nell’ipotesi di “falsa attestazione della presenza in servizio”, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente.
Ai sensi dell’art. 55-quater, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 165/2001, costituisce “falsa attestazione della presenza in servizio” qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso.
Le condotte poste in essere dai c.d. “furbetti del cartellino”, oltre ad assumere una rilevanza penale (es. truffa in danno dello Stato; commissione di falso) e a costituire un illecito disciplinare (licenziamento disciplinare senza preavviso), determinano l’insorgenza di una responsabilità civile risarcitoria, potendo il datore di lavoro pubblico richiedere il risarcimento del “danno erariale” per violazione del sinallagma contrattuale (il dipendente infedele ha infatti percepito, egualmente, la retribuzione a fronte di assenza di una prestazione, ad esempio per recarsi al mare o al ristorante) e del “danno all’immagine”, inteso come il discredito, l’umiliazione, il “disdoro” subìto dalla pubblica amministrazione per effetto della condotta incresciosa del dipendente.
Con riferimento a questo peculiare assetto normativo concepito dal legislatore per reprimere le casistiche dei “furbetti del cartellino”, merita di essere segnalata l’ordinanza della Corte di Cassazione 15 aprile 2021, n. 9930, con la quale è stata confermata la legittimità del licenziamento per giusta causa senza preavviso irrogato dall’Azienda Sanitaria Locale (ASL) di Avellino nei confronti di una lavoratrice che, di comune accordo con i colleghi, con condotte di “scambio” dei badge in dotazione, aveva, con cadenza quasi quotidiana, violato la normativa interna di rilevazione delle presenze, disattendo ai propri doveri d’ufficio.
Nella fase di merito, il licenziamento era stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Avellino (fase sommaria e di opposizione) e, poi, dalla Corte di appello di Napoli che aveva respinto con sentenza il reclamo della lavoratrice.
La lavoratrice aveva proposto ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello, lamentando la violazione del profilo della proporzionalità della sanzione espulsiva, non avendo la Corte territoriale considerato che, nei confronti di altri dipendenti della ASL, erano state irrogate sanzioni più lievi.
La Cassazione ha ritenuto esaustiva e adeguata la motivazione resa dalla sentenza di appello in merito alla legittimità del licenziamento, con particolare riguardo al giudizio di gravità in concreto della condotta e di proporzionalità della sanzione espulsiva. Il giudice di appello ha infatti correttamente affermato che:
- ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione, non rileva tanto l’entità del danno economico arrecato dalla condotta all’azienda (nel caso di specie, effettivamente modesto), quanto, piuttosto, la violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro. La lavoratrice si era, infatti, rivelata inaffidabile, tradendo la fiducia dell’amministrazione, per effetto della “quasi quotidiana violazione della normativa di rilevazione delle presenze e dalla indifferenza per la continuità del servizio”, dimostrata dall’abitualità con la quale la stessa “entrava e usciva dalla sede aziendale, facendo in modo di evitare che il sistema apposito potesse registrarla”;
- la condotta della lavoratrice era “connotata da una particolare intensità dell’elemento soggettivo, manifestata dalla diffusività del sistema adottato e dai chiari contorni associativi di questo, in considerazione del numero elevato dei dipendenti che vi partecipano”. In particolare, nell’ambito di un mese solare, a favore della lavoratrice, vi erano state ben 29 timbrature da parte dei colleghi e 8 timbrature della lavoratrice a vantaggio di altri dipendenti. Dette circostanze evidenziavano “sul piano oggettivo oltre che volitivo, non solo la disponibilità allo scambio di illeciti favori per eludere il sistema di rilevazione delle presenze ma anche l’abitualità delle condotte e la completa indifferenza per la violazione dei propri doveri di ufficio, tanto più grave, per la funzione ricoperta e la rilevanza dei compiti assegnati”.
Ciò posto, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della lavoratrice (in quanto era attinente a valutazioni di questioni di fatto la cui valutazione – ai sensi dell’ordinamento – è riservata al solo giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità), condannandola al pagamento delle spese di giudizio.