Ammessa una penale alta se l’ex dipendente viola il divieto di storno.

Nota a Cass. 4 agosto 2021, n. 22247

Maria Novella Bettini

Legittimo il pagamento di una penale, da parte di un dirigente di banca, particolarmente alta, pari a circa tre volte e mezzo la sua retribuzione, in ragione sia del ruolo apicale da costui rivestito che del pregiudizio sofferto dal datore di lavoro per effetto della perdita del cliente stornato in violazione degli obblighi assunti dal dirigente medesimo.

È quanto afferma la Corte di Cassazione (4 agosto 2021, n. 22247, conf. a App. Milano n. 918/ 2017 che aveva confermato la pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede (n. 3505/14) con la quale era stata accertata l’insussistenza della giusta causa delle dimissioni, rassegnate da un dirigente nei confronti di un istituto di credito e, per l’effetto, lo aveva condannato a pagare la indennità sostitutiva di preavviso, pari ad euro 43.551,75, oltre accessori, la penale di euro 287.103,00 per ciascuna violazione del divieto di storno (relativamente al cliente “Cooperative” che il lavoratore aveva condotto con sé presso altra banca ove formalmente era passato alle dipendenze) e del patto di non concorrenza e a restituire il corrispettivo percepito per il patto suddetto, pari ad euro 48.373,99.

La Corte chiarisce che costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato: 1) la valutazione di compatibilità del vincolo (sulla futura attività lavorativa) assunto con il patto di non concorrenza con la necessità di non compromettere la possibilità del lavoratore di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita; 2) la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito; 3) e, con riguardo all’entità della penale risarcitoria pattuita, l’apprezzamento in ordine alla eccessività o meno dell’importo fissato con la clausola penale dalle parti contraenti per il caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento; 4) nonché la misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo. Il giudizio deve inoltre basarsi “sulla valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento con riguardo all’effettiva incidenza dello stesso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l’entità del danno subito” (v. Cass n. 7835/2006 e n. 7528/2002).

La Cassazione conferma altresì i principi statuiti dalla sentenza di merito circa la indipendenza delle clausole relative al patto di non concorrenza ed al divieto di storno di clienti, rinvenendo la loro autonomia nella fonte normativa regolatrice le singole fattispecie e verificando che, nel caso sottoposto al suo giudizio, la loro singola violazione era avvenuta mediante condotte distinte, per tempi e modi, sebbene connesse sotto l’aspetto teleologico.

In particolare. I giudici precisano che non può “estendersi il regime normativo di cui all’art. 2125 c. c. anche alla previsione contrattuale del divieto di storno di clienti perché il patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. e la clausola contrattuale contenente il divieto di storno di clientela vietano due condotte differenti: la prima, infatti, proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con la società datrice, anche al termine del rapporto di lavoro ed ha durata, nel caso de quo, limitata a tre mesi dalla cessazione dello stesso; la seconda, invece, impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela storica verso un’altra impresa datrice, sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con la prima società. Il divieto di storno di clientela mira, poi, a garantire la tutela dell’avviamento della società stipulante, dal momento che esso concorre al mantenimento e alla consolidazione dei buoni rapporti con il portafoglio di clienti acquisiti nel corso del tempo”.

Infine, allo scopo di valutare la validità del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2125 c.c., il Collegio ribadisce che esso: “a) non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte dal datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato; b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. Inoltre: 1) il corrispettivo dovuto può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro” (v. per tutte Cass. n. 3507/2001; in senso contrario, v. Trib. Milano 26 maggio 2021, n. 1189, che ha dichiarato la nullità di patti di non concorrenza che prevedevano la corresponsione del compenso in costanza di rapporto sul presupposto che, in tale ipotesi, il corrispettivo era non solo indeterminato bensì anche indeterminabile, in quanto ancorato all’effettiva durata del rapporto di lavoro); 2) il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato (cfr. Cass. n. 9790/2020, in q. sito con nota di M.N. BETTINI).

Nella fattispecie, la Corte territoriale era giunta alla conclusione che il patto di non concorrenza era stato validamente stipulato non essendo stata compressa la capacità professionale del lavoratore e la correlata capacità di procurarsi un reddito adeguato, stante la esigua durata (tre mesi) del patto; la consistente entità del corrispettivo (euro 16.000,00 al mese, per un totale di euro 48.000,00 pari al 60% dell’ultima retribuzione annuale); e la sua estensione territoriale ((Italia, Francia, Svizzera, Spagna Germania, Principato di Monaco; Rep. di San Marino, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi), dalla quale esulavano numerosi Stati europei.

Divieto di storno e patto di non concorrenza
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