L’imprenditore che adibisca il lavoratore divenuto invalido a mansioni inferiori deve provare di aver adempiuto all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli o che l’inadempimento non sia a lui imputabile.

Nota a Trib. Lecco 9 febbraio 2023

Sonia Gioia

In materia di disabilità, l’adibizione del lavoratore divenuto inabile a mansioni inferiori rispetto al suo inquadramento professionale costituisce una violazione del principio di parità di trattamento laddove il datore di lavoro non dia prova, in giudizio, di aver adempiuto all’obbligo di adottare gli accomodamenti ragionevoli previsti dalla legge o che l’inadempimento sia dovuto a causa a lui non imputabile, con conseguente condanna alla cessazione della condotta illecita; condotta alla quale l’imprenditore  è tenuto a dare esecuzione mediante l’adozione di misure appropriate per consentire al dipendente di svolgere mansioni che siano idonee al suo stato di salute, anche in rapporto alla sua professionalità.

Lo ha stabilito il Tribunale di Lecco (9 febbraio 2023) in relazione ad una fattispecie concernente un lavoratore con handicap che lamentava di aver subìto un trattamento discriminatorio a causa della sua disabilità, consistito nell’essere stato assegnato – a seguito del provvedimento giudiziale di reintegrazione ottenuto dopo la dichiarazione di illegittimità del licenziamento (comminatogli per superamento del periodo di comporto) – a mansioni inferiori rispetto al suo inquadramento professionale.

In particolare, il dipendente sosteneva che l’adibizione a mansioni di addetto alle pulizie, avvenuto all’esito dell’ordine di reintegra, costituiva “un’offesa alla sua dignità professionale, di fatto concretizzando una discriminazione diretta” e che la società datrice – in violazione del principio di derivazione comunitaria che impone all’imprenditore di adottare nei confronti dei lavoratori invalidi ragionevoli accomodamenti – avrebbe potuto adibirlo ad attività equivalenti alle ultime svolte (autista), tra cui  quella di agente di movimento – addetto alla sala operativa.

Al riguardo, il giudice ha osservato che ogni datore di lavoro, sia pubblico che privato, è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli”, vale a dire “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete” per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro o di svolgerlo, salvo che tali provvedimenti richiedano da parte dell’imprenditore “un onere finanziario sproporzionato (art. 5, Dir. 2000/78/CE recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro” e art. 3, co. 3 bis, D. LGS. 9 luglio 2003, attuativo della citata direttiva),

Si tratta di adeguamenti, latu sensu, organizzativi che il datore deve porre in essere allo scopo di garantire il principio della parità di trattamento dei disabili e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, vale a dire per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa, seppur entro il limite di un onere finanziario proporzionato e non eccessivo (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie), stante l’esigenza del mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa (considerando 21 e art. 5 Dir. cit.).

Il canone della ragionevolezza dell’accomodamento implica, poi, che la modifica organizzativa non debba pregiudicare “significativamente l’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti”, il tutto in un’ottica di rispetto dei principi di correttezza e buona fede, che presidiano ogni rapporto contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c. c., e di un adeguato bilanciamento degli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte, vale a dire quello:

  • del lavoratore disabile al mantenimento di un impiego confacente con il suo stato psicofisico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà;
  • del datore di lavoro a garantirsi comunque una prestazione utile all’impresa, “tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche al datore di lavoro, se non previste per legge”;
  • degli altri dipendenti coinvolti, considerato che non si può escludere a monte che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri dipendenti la cui posizione va valutata comparativamente (Cass. n. 6497/2021).

“Sussiste insomma un obbligo del datore di lavoro di assegnare il lavoratore, in condizioni di handicap, a mansioni diverse, equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori”, a condizione che la diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, anche in presenza di un costo, purché sia sostenibile e ragionevole, avuto riguardo anche dell’interesse degli altri dipendenti coinvolti.

In tal modo, il legislatore contempera il conflitto tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente nonché quello al libero esercizio dell’impresa ai sensi degli artt. 4, 32 e 41 Cost., ponendo in capo all’imprenditore l’obbligo di ricercare, anche nel rispetto dei canoni della correttezza e della buona fede nell’esecuzione del rapporto, le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, “risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore” (Cass. n. 13511/2016).

Con riguardo alle regole concernenti il riparto degli oneri probatori in ordine alle soluzioni ragionevoli, all’imprenditore spetta l’allegazione e la prova (di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo) di aver adempiuto all’obbligo di accomodamento ragionevole oppure che eventuali soluzioni alternative, pur possibili, fossero prive di ragionevolezza, “magari perché coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero fossero sproporzionate o eccessive, a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell’impresa”, mentre non compete al lavoratore (né al giudice) individuare le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di impiego.

Pertanto, per verificare l’adempimento dell’obbligo imposto dall’art. 3, co. 3 bis cit., occorre valutare il contenuto del comportamento dovuto, “non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità di trattamento, quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un’attività lavorativa, altrimenti preclusa alla persona con disabilità” e ad evidenziare che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile nella ricerca di una soluzione organizzativa appropriata, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto.

“Non è quindi sufficiente, per il datore di lavoro, allegare le difficoltà che possono sorgere nell’operare nel senso richiesto, ma occorre dimostrare che le difficoltà lamentate siano tali da determinare costi insostenibili o irragionevoli, o una destabilizzazione dell’assetto organizzativo dell’azienda, o che si tratti di andare ad incidere sull’interesse degli altri lavoratori” (Cass. n. 6497, cit.; Cass. n. 31520/2019; Cass. n. 29099/2019; Cass. n. 27243/2018; Cass. n. 27792/2017).

Sulla base di tali considerazioni, il giudice ha accertato la natura discriminatoria dell’assegnazione del lavoratore a mansioni deteriori rispetto a quelle da ultimo svolte, con conseguente condanna alla cessazione del comportamento illecito e all’adozione dei ragionevoli accomodamenti previsti dalla legge, dal momento che  l’azienda non aveva dato prova “di aver compiuto uno sforzo adeguato”, nel senso di proporre al dipendente “una mansione alternativa, adatta alla sua professionalità e diversa dalla mansione di autista”, cui era divenuto inidoneo.

Sul tema, v. anche, in q. sito,  M. N. BETTINI, I.O., Lavoratore disabile nel recente intervento della Cassazione: nozione, accomodamenti ragionevoli, licenziamento e onere della prova.

Lavoratori disabili e obbligo di adozione di accomodamenti ragionevoli
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