La lavoratrice madre ha diritto alla NASpI, senza distinzione di tipologia di lavoro svolto

Nota a Trib. Lodi 30 maggio 2023, R.G. n. 149/2023

Fabrizio Girolami

Nel lavoro domestico, in caso di cessazione del rapporto per dimissioni della lavoratrice “addetta ai servizi domestici e familiari” durante il periodo di sospensione obbligatoria per maternità (ai sensi del D.Lgs. n. 151/2001), la lavoratrice medesima ha diritto a conseguire dall’INPS il pagamento dell’indennità di occupazione (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego – NASpI) ai sensi degli artt. 1 ss., D.Lgs. n. 22/2015, al pari delle lavoratrici madri adibite in settori differenti dal lavoro domestico.

Lo ha stabilito il Tribunale di Lodi con sentenza 30 maggio 2023, R.G. n. 149/2023, con riferimento alla vicenda di una colf (assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato, in base al C.C.N.L. Lavoro Domestico), la quale, a seguito della nascita della propria figlia, aveva rassegnato le dimissioni per giusta causa (per necessità di prestare alla bimba le necessarie cure) prima della cessazione del periodo di maternità obbligatoria. A seguito della cessazione del rapporto, la lavoratrice aveva presentato all’INPS, ai sensi del D.Lgs. n. 22/2015, la domanda di accesso all’indennità di disoccupazione, c.d. NASpI, avendo maturato i relativi requisiti contributivi e occupazionali.

Il Comitato provinciale dell’INPS, dopo aver inizialmente rigettato la domanda, a seguito di reclamo e integrazione documentale, aveva accolto l’istanza della lavoratrice. Detta delibera di accoglimento era stata poi tuttavia sospesa dal Direttore della Sede INPS di Milano, ritenendo che “le dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità (Omissis) e fino al compimento del primo anno di vita del bambino non danno diritto alla NASPI per le lavoratrici colf e badanti, in quanto le stesse non rientrano nellambito di applicazione degli artt. 54 e 55 del TU maternità”.

Nel successivo giudizio di merito instaurato dalla lavoratrice, l’INPS aveva inoltre negato il diritto alla NASpI, aggiungendo che l’indennità non spetta in caso di dimissioni volontarie della lavoratrice.

Con la sentenza in commento, il Tribunale di Lodi ha accolto il ricorso della lavoratrice, osservando quanto segue:

  • l’art. 54 (“Divieto di licenziamento”) del D.Lgs. n. 151/2001 prevede, al co.1, che le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dalla normativa vigente, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino;
  • l’art. 55 (“Dimissioni”) del D.Lgs. n. 151/2001 stabilisce che “in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dellarticolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge (…) per il caso di licenziamento (Omissis)”. Tra le suddette indennità rientra anche la NASpI, prevista dal D.Lgs. n. 22/2015 per il caso di licenziamento per le lavoratrici madri;
  • l’art. 62 del D.Lgs. n. 151/2001 dispone che “le lavoratrici e i lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari hanno diritto al congedo di maternità e di paternità” e che “si applicano le disposizioni di cui agli articoli 6, comma 3, 16, 17, 22, comma 3 e 6, ivi compreso il relativo trattamento economico e normativo”;
  • sebbene quest’ultima disposizione non richiami – per il lavoro domestico – le sopra dette disposizioni di cui agli artt. 54 e 55 del D.Lgs. n. 151/2001 (come sostenuto dall’INPS), va richiamata, in via generale, la previsione dell’art. 3 del medesimo D.Lgs. il quale statuisce che “è vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolari e dell’esercizio dei relativi diritti”;
  • orbene, proprio in base al divieto generale di discriminazioni posto dall’art. 3, D.Lgs. n. 151/2001 e tenuto conto della peculiare ratio complessiva sottesa al medesimo D.Lgs. n. 151/2001 (che, come noto, predispone un compiuto apparato di tutela e sostegno delle lavoratrici madri in costanza del periodo di gravidanza e maternità), tale tutela “sarebbe sconfessata se alla lavoratrice domestica dimissionaria prima della chiusura del periodo di maternità fosse negato laccesso al beneficio, a differenza delle altre lavoratrici madri che, invece, al beneficio accedono laddove rassegnino le dimissioni volontarie”;
  • inoltre, l’art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 151/2001 fa espressamente salve “le condizioni di maggior favore” stabilite “da leggi, regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione”. A tale riguardo, la lavoratrice ricorrente è tutelata dall’art. 25 del C.C.N.L. del Lavoro Domestico il prevede che “si applicano le norme di legge sulla tutela delle lavoratrici madri, con le limitazioni ivi indicate, salvo quanto previsto ai commi successivi” e sancisce il medesimo divieto di licenziamento (salvo che per giusta causa) della lavoratrice madre di cui agli artt. 54 e 55 del D.Lgs. n. 151/2001 “dallinizio della gravidanza, purché intervenuta nel corso del rapporto di lavoro, e fino alla cessazione del congedo di maternità”;
  • pertanto, nel caso di specie – alla luce del sopra esposto quadro normativo e contrattuale di riferimento – la lavoratrice domestica ha pieno diritto ad accedere al beneficio della NASpI, dovendo trovare piena applicazione l’art. 55, D.Lgs. n. 151/2001 che “prevede il diritto di una lavoratrice madre – qualsiasi, senza distinzione di tipologia di lavoro svolto – alle indennità previste dalla legge per il caso di licenziamento, nel caso – come quello in esame- di dimissioni volontarie”.

Sentenza

VERBALE DELLA CAUSA tra …. PARTE RICORRENTE e I.N.P.S. … PARTE RESISTENTE

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con ricorso depositato in data 16/03/2023, … ha adito il Tribunale di Lodi in funzione di Giudice del Lavoro, nel contraddittorio con I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE per sentire accogliere le seguenti conclusioni: “a) accertare e dichiarare il diritto della ricorrente ad accedere e fruire della corresponsione della NASpI dal 15.12.2021 per tutte le ragioni indicate nella parte in diritto; b) condannare l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del legale rappresentante pro tempore a corrispondere alla ricorrente l’importo corrispondente a complessive 72 settimane di NASpI al tallone mensile di 691,10 euro e quindi 9.830,87 euro, ovvero il diverso importo comunque ritenuto di giustizia. Con vittoria di spese del presente giudizio da distrarsi a favore del sottoscritto procuratore antistatario”.

Si è ritualmente costituito in giudizio I.N.P.S., contestando le avverse pretese, resistendo alla domanda e chiedendone l’integrale rigetto.

Istruita la causa mediante i documenti versati in atti, all’odierna udienza, all’esito della discussione, il Giudice ha deciso la causa mediante lettura del dispositivo e delle contestuali ragioni di fatto e di diritto della decisione.

È opportuno fornire una sintesi dei fatti di causa, risultanti dai documenti prodotti:

– la ricorrente, che ha prestato attività di lavoro in qualità di colf, in forza di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, per 30 ore settimanali, in base al C.C.N.L. Lavoro Domestico (v. doc. n. 1 fasc. ric., contratto di assunzione), rassegnava le dimissioni in data 26 novembre 2021 (v. doc. n. 5 fasc. ric.; v. doc. n. 9 fasc. res.), prima della cessazione del periodo di maternità obbligatoria (scadenza in data 4 dicembre 2021), con il seguente motivo: “in seguito alla recente maternità, dovendo provvedere alla mia bambina di pochi mesi, in particolare al suo bisogno primario di nutrizione e non avendo nessuno a cui affidarla rassegno le dimissioni, per giusta causa, dal rapporto di lavoro domestico […]”; la ricorrente è madre di una bambina, Arianna, nata il 27 agosto 2021 (v. doc. n. 3 ric., certificato di gravidanza e doc. n. 4 fasc. ric., codice fiscale della figlia);

– a seguito della cessazione del rapporto la ricorrente, in data 14 dicembre 2021, presentava domanda di accesso alla indennità di disoccupazione c.d. N.a.s.p.i. (v. doc. n. 6 fasc. ric.);

– l’I.N.P.S. rigettava l’istanza, in data 16 dicembre 2021, con la seguente motivazione: “la cessazione del rapporto di lavoro non dà diritto alla concessione del trattamento in oggetto” (v. doc. n. 7 fasc. ric.; doc. n. 1 fasc. res.);

– proposti sia un riesame avverso il rigetto e sia un successivo ricorso gerarchico avverso il silenzio dell’Istituto (docc. nn. 8-9 fasc. ric.), la ricorrente si vedeva accolta la domanda a seguito di integrazione documentale, con la seguente motivazione di cui alla delibera del Comitato Provinciale: “il d.lgs 151/2015 ha abrogato quanto previsto dalla legge n. 92/2012, c.d. Riforma Fornero, per cui, in tema di dimissioni di colf o badanti, non si prevede più la necessità di convalida, escludendo tali categorie di lavoratori; infatti l’art. 26, comma 7, d.lgs. 151/2015 prevede espressamente che la nuova procedura telematica che ha sostituito il procedimento di convalida non debba essere applicata al lavoro domestico. Tenuto conto che il legislatore nulla ha menzionato in merito all’esclusione dal diritto dei Collaboratori domestici di percepire l’indennità di disoccupazione e, inoltre, come evidenziato dalla Circolare INPS n.9/2021, è previsto per il rapporto di lavoro in questione il versamento dell’aliquota contro la disoccupazione, al fine di non creare disparità di trattamento tra le lavoratrici dipendenti durante il periodo tutelato” (v. doc. n. 11 fasc. ric.; doc. n. 2 fasc. res.); seguiva il provvedimento definitivo di accoglimento datato 21 marzo 2022 (doc. n. 13 fasc. ric.);

– il Direttore della sede I.N.P.S. di Milano, con delibera datata 1 marzo 2022, sospendeva in autotutela la delibera di accoglimento del Comitato Provinciale I.N.P.S. con la seguente motivazione: “le dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità, ossia a partire da 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del bambino non danno diritto alla NASPI per le lavoratrici colf e badanti, in quanto le stesse non rientrano nell’·ambito di applicazione degli artt. 54 e 55 del TU maternità. Il provvedimento impugnato, pertanto, risulta corretto ed il ricorso non può essere accolto” (v. doc. n. 14 fasc. ric., doc. n. 13 fasc. res.); seguiva delibera n. 149 (seduta del 2 maggio 2022) di annullamento del provvedimento del Comitato Provinciale (v. doc. n. 15 fasc. ric.; doc. n. 12 fasc. res.). Tanto chiarito, premesso che la Naspi (Nuova Assicurazione Sociale per l’impiego) è una indennità mensile di disoccupazione, istituita dall’art. 1 d.lgs. 4 marzo 2015 n. 22 – e che sostituisce le precedenti prestazioni di disoccupazione Aspi e Miniaspi – in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati a decorrere dal 1 maggio 2015-; che la stessa è erogata su domanda dell’interessato e spetta ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che hanno perduto involontariamente l’occupazione, può osservarsi che non sono in contestazione gli altri requisiti ex art. 3 del d.lgs. n. 22/2015, che la ricorrente ha dimostrato di possedere come risulta dalla documentazione in atti, ovvero:

– risultano le tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti la cessazione, come da C.U. per gli anni 2020-2021 prodotte (v. doc. n. 12 fasc. ric.);

– risultano le trenta giornate di lavoro effettivo svolte nei dodici mesi precedenti (v. doc. n. 12 fasc. ric.). Materia del contendere è se dalla cessazione del rapporto per dimissioni della lavoratrice “addetta ai servizi domestici e familiari” ex art. 62 del d.lgs. n. 151/2001 (rubricato “lavoro domestico”), durante il periodo di sospensione obbligatoria per maternità, consegua o meno il diritto alla indennità Nuova Prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego ex art. 1 e ss. del d.lgs. n. 22/2015, così come è riconosciuto, in genere, per le lavoratrici madri adibite in settori differenti rispetto al lavoro domestico.

La ricorrente, lavoratrice madre assunta come colf, rassegna le dimissioni in data 26 novembre 2021, motivate dalla necessità di prestare le cure occorrenti alla figlia appena nata (figlia nata il 27 agosto 2021, v. doc. n. 4 fasc. ric.), durante il periodo di maternità, periodo che si sarebbe concluso il 4 dicembre 2021 (si veda il doc. n. 2 fasc. ric., periodo di interdizione obbligatoria anticipata decorrente dal 19 marzo 2021 disposto dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro; si veda il doc. n. 3 fasc. ric., il certificato con la data presunta del parto, prevista al 4 settembre 2021; cfr. doc. n. 7 fasc. res.).

I.N.P.S in sede amministrativa – sebbene in seconda battuta- nega la sussistenza del diritto perché le dimissioni rese fino al compimento di un anno di età del nato da parte della lavoratrice colf non rientrerebbero nell’ambito applicativo degli artt. 54 e 55 del T.U. maternità del 2001; in sede di giudizio, I.N.P.S. nega il diritto aggiungendo che peraltro si tratterebbe di dimissioni volontarie, per cui non sarebbe concessa l’indennità pretesa.

Si tratta di difese che, a parere del giudicante, non colgono perfettamente nel segno, sulla base di quello che è il tenore della normativa applicabile.

L’art. 54 comma 1 del d.lgs. n. 151/2001 (rubricato, “divieto di licenziamento”), prevede che: “1. Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino”. L’art. 55 (rubricato, “dimissioni”) dello stesso d.lgs. stabilisce: “1. In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’art. 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso”.

L’art. 62 del Capo X (“disposizioni speciali”) del d.lgs. n. 151/2001, riguardante la ricorrente, statuisce, per quel che rileva ai fini della presente causa: “1. Le lavoratrici e i lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari hanno diritto al congedo di maternità e di paternità. Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 6, comma 3, 16, 17, 22, comma 3 e 6, ivi compreso il relativo trattamento economico e normativo”.

La disposizione riportata non effettua alcun rinvio al combinato disposto degli artt. 54 e 55 del d.lgs. 151/2001 cit., rinviando espressamente ad altre disposizioni.

L’art. 55 afferma espressamente il diritto della lavoratrice madre che abbia rassegnato le dimissioni volontarie a motivo della nascita o gravidanza alle: “indennità previste da disposizioni di legge […] per il caso di licenziamento”, tra cui rientra la Naspi, prevista dal d.lgs. n. 22/2015 per il caso di licenziamento per le lavoratrici madri, come la ricorrente.

Deve considerarsi che l’art. 3 del d.lgs. n. 151/2001 così statuisce: “è vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”. L’art. 1 dello stesso d.lgs. n. 151/2001 statuisce che: “1. Il presente testo unico disciplina i congedi, i riposi, i permessi e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori connessi alla maternità e paternità di figli naturali, adottivi e in affidamento, nonché il sostegno economico alla maternità e alla paternità. 2. Sono fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione”.

L’art. 25 del C.C.N.L. di riferimento applicato al rapporto di lavoro della ricorrente (v. doc. n. 16 fasc. ric.), per quel che interessa, così prevede: “si applicano le norme di legge sulla tutela delle lavoratrici madri, con le limitazioni ivi indicate, salvo quanto previsto ai commi successivi” e al comma 3 sancisce il medesimo divieto di licenziamento, richiamando, in ultima analisi, quella che è la ratio del combinato disposto degli artt. 54 e 55 del d.lgs. cit.: “dall’inizio della gravidanza, purché intervenuta nel corso del rapporto di lavoro, e fino alla cessazione del congedo di maternità, la lavoratrice non può essere licenziata, salvo che per giusta causa”.

Quello riportato è il quadro normativo e contrattuale che incide sulla fattispecie in esame.

Deve osservarsi che, seguendo la tesi di I.N.P.S., ovverossia addivenendo alla negazione del diritto alla Naspi discenderebbe, per la ricorrente, un trattamento meno favorevole connesso alla propria maternità, in contrasto con quanto espressamente vieta l’art. 3 del suddetto d.lgs., che codifica un principio di carattere generale, applicabile anche al caso di specie, senza che I.N.P.S. abbia addotto elementi per ritenere diversamente.

Sia da osservarsi che sebbene l’art. 62 cit., il cui ambito è riferito al caso che ci occupa, non richiami l’art. 55, non è dato evincersi come questa ultima disposizione, che afferma il diritto della lavoratrice madre alle indennità previste dalle leggi speciali (come la Naspi) per il caso di dimissioni volontarie, non possa direttamente applicarsi al caso di specie, sussistendone tutti i requisiti, ciò perché l’art. 1 del d.lgs. cit. fa  salve espressamente le condizioni di miglior favore previste da altre disposizioni di legge (quale l’art. 55 cit., che è garanzia per la lavoratrice madre dell’accesso alla Naspi mediante il rinvio alle disposizioni di legge che prevedono indennità per il caso di licenziamento ed è una condizione di miglior favore, perché è garanzia dell’accesso all’indennità per la lavoratrice madre badante) ed avuto riguardo al fatto che la ratio del testo unico è quella di apprestare misure di tutela e sostegno delle lavoratrici madri in costanza del periodo di gravidanza e maternità (v. l’art. 1 cit.: “disciplina […] la tutela delle lavoratrici madri”), tutela che sarebbe sconfessata se alla lavoratrice domestica dimissionaria prima della chiusura del periodo di maternità fosse negato l’accesso al beneficio, a differenza delle altre lavoratrici madri che, invece, al beneficio accedono laddove rassegnino le dimissioni volontarie.

Si intende sottolineare che la disposizione dell’art. 62 del d.lgs. n. 151/2001 ritaglia un ambito specifico per la lavoratrice madre che sia badante o colf (non a caso la collocazione sistematica è nel differente “capo X”, intitolato “disposizioni speciali”, rispetto al capo IX sul “divieto di licenziamento, dimissioni, diritto al rientro”, cui appartengono gli artt. 54 e 55 cit.), regolando, nello specifico, quello che è l’istituto del congedo obbligatorio e richiamandone espressamente le disposizioni di rilievo, quali gli artt. 6 comma 3 (sulle prestazioni specialistiche per la tutela della maternità estese alle lavoratrici domestiche durante il periodo di gravidanza, salva l’ordinaria assistenza sanitaria ed ospedaliera a carico del S.S.N.), 16 (divieto di adibire al lavoro le donne durante il periodo di congedo), 17 (estensione del divieto in caso di lavori gravosi o pregiudizievoli per la salute della donna), 22 comma 3 e 6 (trattamento economico).

Si tratta di un ambito applicativo del tutto differente, a parere del Giudice, tale da non riguardare il caso di specie (né può invocarsi il principio lex specialis derogat generali perché l’art. 55 cit. è applicabile direttamente).

Al di fuori dell’ambito che inerisce al congedo obbligatorio ed agli istituti connessi, pertanto, deve direttamente applicarsi quella che è una generale disposizione, quale l’art. 55 d.lgs. n. 151/2001, che prevede il diritto di una lavoratrice madre – qualsiasi, senza distinzione di tipologia di lavoro svolto- alle indennità previste dalla legge per il caso di licenziamento, nel caso – come quello in esame- di dimissioni volontarie.

Quantomeno nel caso in esame, a ragionare diversamente secondo quella che è la tesi dell’Istituto, sussisterebbe una lacuna normativa, che appare foriera di discriminazione tra la ricorrente che lavora come colf e le altre lavoratrici, discriminazione che entrerebbe in conflitto con quello che è lo scopo di tutela della disciplina del testo unico (art. 1), in particolare con l’art. 3 del Testo Unico, in ragione del fatto che l’impossibilità di accesso al beneficio Naspi a causa dell’attività di lavoro svolta rappresenta un trattamento meno favorevole in ragione dello stato di maternità a parità di condizioni di altre lavoratrici. Del resto, la conseguenza comporterebbe una irragionevolezza tra norme collocate in capi differenti all’interno del predetto testo unico e di cui non è dato discernere i requisiti per una differenziazione di trattamento, avuto riguardo al caso di specie, fondata sul lavoro prestato (se colf/badante/assistenza rispetto ad altri lavori).  La disposizione contrattuale invocata (art. 25 comma 3 del C.C.N.L. applicato al rapporto) estende il divieto di licenziamento della lavoratrice domestica in stato di gravidanza per tutto il periodo di congedo, non facendo altro che confermare l’identità di tutela rispetto all’analogo combinato disposto degli artt. 54 e 55 del d.lgs. n. 151/2001.

Rebus sic stantibus, che si tratti di dimissioni da qualificarsi come volontarie – come riconosciuto da I.N.P.S. – senza che siano assistite dalla “giusta causa” tale da non consentire la prosecuzione del rapporto, ad onta della qualificazione operata dal datore di lavoro e dalla ricorrente, emerge chiaramente dal contenuto della lettera di dimissioni, nella quale la ricorrente non descrive i tratti di una condotta datoriale costituente “giusta causa” ai sensi dell’art. 2118 c.c., che ha subito e tale da rappresentare, per la sua gravità, una circostanza lesiva in modo irreparabile del vincolo fiduciario, perché espone di una circostanza che la riguarda personalmente ed investe la sua sfera giuridica.

Se le dimissioni sono volontarie, allora è applicabile l’art. 55, per il tramite dell’art. 3 del d.lgs. n. 151/2001, senza che I.N.P.S. abbia fornito elementi per ritenere il contrario.

Consegue il diritto alla prestazione Naspi, sul presupposto della dimostrazione del possesso, da parte della ricorrente, degli altri requisiti richiesti dalla legge.

L’ammontare della prestazione (altresì la decorrenza) non è specificamente contestato dall’Istituto e può prendersi a riferimento quanto indicato nel ricorso.

Le spese di lite non seguono la soccombenza in ragione della novità e complessità della questione affrontata. Devono essere integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale di Lodi, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:

– accoglie il ricorso e per l’effetto accerta il diritto della ricorrente a fruire del beneficio Naspi a decorrere dal 15.12.2021 e condanna l’Istituto a corrispondere alla stessa la somma complessiva di € 9.830,87, oltre interessi legali dal dovuto al soddisfo;

– compensa integralmente le spese di lite tra le parti.

Sentenza resa ex articolo 429 c.p.c., pubblicata mediante lettura in udienza ed allegazione al verbale. Così deciso in Lodi, il 30 maggio 2023

Lavoro domestico, dimissioni nel periodo tutelato di maternità e riconoscimento della NASpI
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