Confermata la diversità di disciplina del regime limitativo del licenziamento tra “dirigenti convenzionali” e “pseudo-dirigenti”.

Nota a Cass. 8 giugno 2023, n. 16208

Fabrizio Girolami

La Cassazione, con la sentenza n. 16208 dell’8 giugno 2023, è tornata a soffermarsi sulla peculiare figura dello “pseudo-dirigente”, intendendosi per tale, nell’ambito dell’ordinamento giuslavoristico, il lavoratore che, pur avendo formalmente la qualifica di dirigente, svolge mansioni in concreto prive dei tratti distintivi della qualifica dirigenziale, secondo le declaratorie della contrattazione collettiva del settore di riferimento.

La figura dello “pseudo-dirigente” è stata oggetto di un’importante elaborazione giurisprudenziale che si è preoccupata di evitare il rischio che l’attribuzione della qualifica “pseudo-dirigenziale” da parte del datore di lavoro possa configurare un mezzo “fraudolento” per eludere la normativa generale che prevede una disciplina limitativa del potere di licenziamento (L. n. 604/1966; L. n. 300/1970).

In questo contesto, la giurisprudenza di legittimità (cui si è uniformata la sentenza in commento) ha affermato che gli “pseudo-dirigenti” rientrano nella cerchia dei lavoratori ai quali trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Diverso è, invece, il regime applicabile ai “dirigenti convenzionali” – ovvero quelli da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile (siano essi dirigenti “apicali” o dirigenti “medi” o “minori”) – per i quali, ai sensi dell’art. 10 della L. n. 604/1966, vige, come noto (in considerazione della pregnante natura fiduciaria del rapporto di lavoro), un regime di “libera recedibilità”, con l’unico obbligo del preavviso (salvo l’ipotesi di giusta causa), con l’applicazione delle forme di tutela indennitaria e risarcitoria previste dalla contrattazione collettiva in caso di “ingiustificatezza” del recesso datoriale.

Nel caso di specie, un giornalista professionista dipendente della R.A.I., cui era stata attribuita la qualifica convenzionale di “direttore” dal 2002, era stato licenziato nell’anno 2014.

Il lavoratore, all’esito della vicenda processuale, aveva sostenuto nel ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 230/2020 (pubblicata il 22/01/2020, r.g. 3078/2017) che, nel corso dello svolgimento del suo rapporto di lavoro, la R.A.I. lo aveva totalmente svuotato di incarichi e mansioni, sicché, a dispetto della sua qualifica formale, egli avrebbe dovuto essere considerato come “pseudo-dirigente”, con conseguente applicazione delle più favorevoli tutele previste dalla normativa limitativa del potere di licenziamento, valevole per la generalità dei lavoratori.

La Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e ha affermato che laddove un rapporto di lavoro sia nato “genuinamente” come dirigenziale (sia pure come “dirigenza convenzionale”, nel senso che tale categoria è stata riconosciuta dal C.C.N.L. in relazione a determinate qualifiche giornalistiche, fra cui quella rivestita dal lavoratore) l’eventuale svuotamento delle mansioni e degli incarichi, intervenuto in corso di rapporto di lavoro, non intacca la posizione del dirigente (che rimane tale e non si trasforma in “pseudo-dirigente”) ma è riconducibile al diverso fenomeno del “demansionamento”.

In questa ipotesi, si è, infatti, di fronte a un profilo “patologico” dello sviluppo del rapporto di lavoro che tuttavia non snatura la posizione del dirigente, trasformandolo in “pseudo-dirigente”. Di conseguenza, nonostante le vicende che hanno inficiato il rapporto di lavoro, nei suoi confronti non trovano applicazione né il regime limitativo del licenziamento, né la relativa tutela.

Appurato che il concreto svuotamento delle mansioni e degli incarichi, intervenuto in corso di rapporto, è riconducibile non alla figura dello “pseudo-dirigente”, ma al diverso fenomeno del demansionamento di un rapporto ab origine genuinamente dirigenziale, il lavoratore può comunque invocare: a) la tutela reintegratoria nelle funzioni dirigenziali (art. 2103 c.c.); b) la tutela risarcitoria per tutti i danni (patrimoniali e non patrimoniali), eventualmente patiti a causa e in conseguenza del fatto illecito/inadempimento contrattuale del datore di lavoro.

Sentenza

Corte di Cassazione 8 giugno 2023, n. 16208

(Omissis)

Svolgimento del processo

1.T.S., giornalista professionista, dipendente della R. spa con qualifica convenzionale di “direttore” dal 2002, in data 27/05/2014 era stato licenziato per ragioni disciplinari.

Adìva il Tribunale di Roma, sostenendo la ritorsività del licenziamento o comunque la sua nullità per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.; in subordine deduceva la manifesta insussistenza del fatto disciplinare addebitatogli. Chiedeva pertanto la declaratoria di nullità o, in subordine, l’annullamento del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna di R. spa al pagamento di tutte le retribuzioni, dal licenziamento all’effettiva reintegra. In ulteriore subordine chiedeva l’accertamento della mancanza di giustificato motivo, la conseguente declaratoria di risoluzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la condanna di R. a pagargli l’indennità risarcitoria in misura di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, pari alla complessiva somma di euro 462.249,60, tenuto conto della retribuzione-parametro di euro19.260,40.

2. Radicatosi il contraddittorio, il Tribunale di Roma, con ordinanza dell’08/08/2014, accoglieva la domanda principale, dichiarava nullo il licenziamento perché ritorsivo, ordinava a R. spa di reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e condannava la società a pagare tutte le retribuzioni dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, oltre ai corrispondenti contributi previdenziali ed assistenziali.

3. Con sentenza del 02/03/2015 il Tribunale rigettava l’opposizione proposta da R. spa.

4. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 07/12/2015, rigettava il reclamo proposto da R. spa, ma confermava la decisione di primo grado con diversa motivazione, in quanto escludeva la sussistenza del carattere ritorsivo del licenziamento e dichiarava la manifesta insussistenza del fatto addebitato al T. in via disciplinare.

5. Adìta da R. spa, questa Corte di Cassazione, con sentenza del 05/06/2017, accoglieva i primi due motivi di ricorso, con cui la società aveva lamentato la nullità della sentenza di secondo grado per aver la Corte d’Appello omesso di pronunziare (in violazione dell’art. 112 c.p.c.) sulla eccezione da essa sollevata – sin dal primo grado e riproposta in secondo grado – di inapplicabilità della tutela reintegratoria avverso il licenziamento illegittimo, una volta escluso il suo carattere ritorsivo, attesa la qualifica dirigenziale posseduta dal T.. Precisava che tale eccezione era stata ritenuta assorbita in primo grado solo perché il Tribunale aveva riconosciuto il carattere ritorsivo del licenziamento e, quindi, la sua nullità. Ma una volta che la Corte d’Appello aveva escluso tale carattere, tornava applicabile la regola generale del recesso ad nutum nei confronti del dirigente, salva la tutela indennitaria prevista dal CCNLG.

6. La Corte d’Appello capitolina, con la sentenza in epigrafe, in sede di rinvio rigettava ogni domanda del T. in quanto dirigente, sia pure “convenzionale”; condannava il T. a restituire a R. spa le somme percepite a titolo risarcitorio fino all’effettiva reintegrazione ma non pure quelle successive, limitando la condanna restitutoria al netto percepito pari ad euro18.955,00, e compensava le spese di tutti i gradi di giudizio.

Per quanto ancora rileva in questo grado, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) Ad essa era demandato solo l’esame e la decisione sull’eccezione sollevata da R. spa circa l’inapplicabilità della tutela invocata dal T. al dirigente, anche solo convenzionale;

b) il carattere ritorsivo del licenziamento era stato escluso dalla Corte d’Appello con pronunzia sul punto non impugnata dal T. e, pertanto, passata in giudicato interno, sicché le relative conclusioni riproposte dal T. anche nell’atto riassuntivo sono inammissibili;

c) la disciplina del recesso datoriale nei confronti del dirigente è dettata dall’art. 2118 c.c., atteso che il regime della necessaria giustificazione di cui alla legge n. 604/1966 è espressamente escluso ai sensi del suo art. 10;

d) pertanto nei confronti del dirigente vige solo l’obbligo della forma scritta (art. 2, co. 4, L. n. 604/1966) e il divieto di licenziamento discriminatorio (art. 3 L. n. 108/1990);

e) qualora il licenziamento sia illegittimo per altre ragioni, la contrattazione collettiva ha previsto di solito una tutela risarcitoria mediante la c.d. indennità supplementare;

f) fino al rinnovo dell’1/04/ 2009 il CCNL giornalistico non disciplinava le conseguenze del licenziamento ingiustificato inflitto al direttore di giornale, equiparato dalla giurisprudenza al dirigente in considerazione dell’ampiezza dei suoi poteri ex art. 6 CCNLG (Cass. n. 6230/2014);

g) a partire dal rinnovo del 2009 e poi nei successivi, il CCNLG ha introdotto una nuova disciplina, riconoscendo una tutela anche alle figure professionali giornalistiche di vertice;

h) in particolare, al direttore, al condirettore e al vicedirettore l’art. 27 CCNLG riconosce, nel caso di licenziamento privo di idonea giustificazione, il diritto a un indennizzo fino ad un massimo di 12 mensilità retributive, oltre all’indennità sostitutiva del preavviso; pertanto il rapporto di lavoro può essere risolto anche senza giusta causa o giustificato motivo, ma in tal caso l’editore dovrà corrispondere un indennizzo fino al massimo di 12 mensilità retributive ulteriori rispetto all’indennità sostitutiva del preavviso;

i) nella R. deve essere però preso in considerazione anche la contrattazione collettiva integrativa per i giornalisti R.U. del 23/06/2009, che all’art. 11 ha, fra l’altro, disposto che “le parti convengono che nei confronti di detti giornalisti [direttore, condirettore e vicedirettore] non troverà applicazione l’art. 27 del citato CNLG nella parte in cui prevede che il rapporto di lavoro … possa essere risolto anche in assenza di giusta causa e di giustificato motivo, fermo restando quanto previsto per l’ipotesi di rifiuto dell’incarico al precedente capoverso. Norma transitoria. I giornalisti già titolari delle funzioni di vicedirettore, condirettore e direttore alla data del 1^ marzo 2001 che non abbiano optato, entro il 30 settembre 2009, per l’applicazione della regolamentazione sopra concordata sono assoggettati alla disciplina prevista dal vigente CNLG”;

j) l’art. 27 CNLG subordina il diritto all’indennizzo alla condizione che il licenziamento sia privo di giusta causa o di giustificato motivo, sicché sarà l’editore che voglia licenziare un direttore, condirettore o vicedirettore a dover dimostrare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, ossia ragioni giustificatrici più pregnanti della mera “giustificatezza”, che altrimenti imporrebbe solo una verifica “in negativo” che il licenziamento non sia arbitrario o discriminatorio;

k) il contratto integrativo esclude questa disciplina (e quindi la possibilità di licenziare anche senza giusta causa o giustificato motivo), ma la tiene ferma per quei giornalisti apicali già tali all’01/03/2001 che, entro il 30/09/2009, non abbiano optato per l’applicazione della disciplina integrativa;

l) ebbene, l’art. 27 CNLG deve essere applicato al T., poiché non è contestato che egli fosse già vicedirettore del GR2 e nel 1999, a seguito di conciliazione giudiziale, assunse la qualifica di “condirettore giornalistico” con nomina a condirettore della direzione canali di pubblica utilità ed innovativi nell’ambito della divisione radiofonia, come risulta dalla delibera del CdA del 30/11/1999; infine, con decorrenza 01/11/2002, come da verbale di conciliazione del 28/11/2002, gli fu attribuita la qualifica convenzionale ad personam di direttore giornalistico e la nomina a condirettore di R.I.;

m) neppure è contestato che il T., già condirettore alla data dell’01/03/2001, non abbia optato per l’applicazione dell’accordo integrativo per i giornalisti R.U. e quindi è rimasto soggetto alla disciplina generale di cui al CNLG ivi compreso l’art. 27;

n) l’eccezione del T. secondo cui i vicedirettori, i condirettori e i direttori assunti o nominati tali prima dell’01/04/2009 non potrebbero essere considerati dirigenti, è infondata, atteso che il CNLG anche prima del 2009 conteneva una disciplina di queste figure apicali del tutto separata da quella del ruolo impiegatizio, presupponendone, dunque, la natura dirigenziale;

o) l’ulteriore eccezione del T. secondo cui comunque la R. avrebbe riconosciuto nel tempo a tutti i giornalisti R.U. (e quindi anche a lui) l’applicabilità dell’accordo integrativo come risulterebbe dalla comunicazione dell’11/02/2014, è infondata, atteso che in tale comunicazione non si evince una volontà aziendale di escludere il trattamento dirigenziale di cui al CCNLG, bensì contiene solo un trattamento di miglior favore laddove prevede l’offerta di ricollocazione;

p) nessuna rilevanza può avere la circostanza per cui nel tempo l’azienda non avesse mai adottato un recesso ad nutum, ma avesse proceduto a comminare un licenziamento disciplinare per giusta causa, a riprova di una prassi consolidata volta a riconoscere anche a tali figure apicali l’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti di cui alla legge n. 300/1970; in senso contrario va evidenziato che questo comportamento datoriale ben può essere ispirato alla convenienza di non pagare l’indennità supplementare e di sottrarsi ad una correlata eventuale responsabilità contabile per danno erariale; in ogni caso le garanzie procedimentali previste dall’art. 7, commi secondo e terzo, della legge n. 300/1970 sono espressione di un principio di generale garanzia procedimentale, a tutela di tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare e quindi trovano applicazione anche al dirigente qualora il datore di lavoro gli addebiti un comportamento colpevole (Cass. n. 2553/2015);

q) neppure può essere invocata la giurisprudenza secondo cui la disciplina limitativa del licenziamento si applica allo pseudo-dirigente, ossia a quel lavoratore che, pur avendo formalmente tale qualifica, svolga mansioni in concreto prive dei tratti distintivi della qualifica dirigenziale; va infatti considerato che, come emerso dalla prova testimoniale, il T. per l’elevata qualifica posseduta, poteva autodeterminarsi le ferie;

r) neppure rilevante è il lamentato demansionamento subito, atteso che è fermo il principio secondo cui la dequalificazione operata dal datore di lavoro nei confronti di un dirigente, costituendo un inadempimento contrattuale, consente al dirigente la tutela risarcitoria e può costituire giusta causa di dimissioni, ma non muta il regime giuridico del licenziamento (Cass. n. 21673/2005);

s) in ogni caso il riconoscimento ad un lavoratore della qualifica di dirigente, a prescindere dalla corrispondenza della stessa alle mansioni effettivamente svolte, non può ritenersi in contrasto con norme imperative o l’ordine pubblico, atteso che il principio della necessaria corrispondenza della qualifica alle mansioni, desumibile dall’art. 2103 c.c., è posto a tutela del lavoratore e quindi ben può essere derogato in suo favore (Cass. n. 6097/2017);

t) oggetto di giudizio non è l’indennità supplementare, in assenza di apposita domanda sul punto, sicché tutte le altre domande del T. vanno rigettate.

7. Avverso tale sentenza di rinvio propone ricorso per cassazione il T., affidato a cinque motivi.

8. Resiste R. spa con controricorso contenente anche ricorso incidentale condizionato, affidato ad un unico motivo.

9. Al ricorso incidentale condizionato resiste il T. con controricorso.

10. Il P.G. ha depositato memoria con cui ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito quello incidentale condizionato.

11. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.Il T. premette che la R. spa, con il suo precedente ricorso per cassazione, non aveva impugnato quella parte della sentenza d’appello secondo cui il licenziamento era comunque illegittimo per manifesta insussistenza del fatto oggetto di contestazione disciplinare, atteso che i cinque motivi di ricorso attenevano tutti soltanto alle conseguenze sul rapporto di lavoro.

Deduce, quindi, che l’illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto addebitato è ormai cosa giudicata.

2. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2095 c.c. e 96 disp.att.c.c. e 2103 c.c., nonché la falsa applicazione dell’art. 10 L. n. 604/1966 ed infine la violazione dell’art. 18 L. n. 300/1970.

In particolare lamenta che la Corte territoriale avrebbe errato nell’escludere che egli fosse solo uno pseudo-dirigente, a causa dell’omessa valutazione del fatto pacifico di essere rimasto totalmente svuotato di ogni mansione da novembre 2002.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha ripetutamente affermato, la disciplina limitativa del potere di licenziamento (leggi n. 604/1966 n. 300/1970) non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 L. n. 604 cit., ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, siano essi dirigenti apicali, siano dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente (ex multis Cass. n. 23894/2018; Cass. ord. n. 27199/2018).

Il ricorrente sostiene che, essendo rimasto svuotato di incarichi e mansioni dal 2002 fino al 2014, egli in realtà dovrebbe essere considerato uno pseudo-dirigente.

La tesi non può essere condivisa.

Tutta l’elaborazione giurisprudenziale formatasi sulla figura dello “pseudo-dirigente” ha avuto riguardo a profili fisiologici di svolgimento di mansioni non riconducibili – neppure ai sensi della contrattazione collettiva – alla categoria legale del dirigente. In tal caso l’attribuzione della qualifica dirigenziale è talora considerata solo il mezzo fraudolento per eludere la tutela legale contro il licenziamento ingiustificato e, come tale, inidoneo ad escluderla.

Il caso qui in esame, invece, è totalmente diverso.

La circostanza più volte sottolineata dal ricorrente integra un profilo “patologico” dello sviluppo del suo rapporto di lavoro, connotato da due conciliazioni e da ulteriori vicende che lo hanno visto demansionato. Tuttavia, per le pregresse funzioni svolte (fino al 2002) egli certamente era dirigente e tale categoria poteva legittimamente rivendicare, sul piano dell’inquadramento e delle funzioni, per ottenere tutela reintegratoria in quelle funzioni propriamente dirigenziali (ai sensi dell’art. 2103 c.c.), nonché risarcitoria per tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, eventualmente patiti a causa ed in conseguenza di quel fatto illecito/inadempimento contrattuale della datrice di lavoro. Inoltre quel fatto era qualificabile come tale (illecito/inadempimento) proprio in considerazione della natura autenticamente dirigenziale del rapporto di lavoro e del conseguente connesso regime giuridico.

In tal senso lo stesso ricorrente precisa di aver ottenuto “numerosi provvedimenti giudiziari (oltre dieci …) che dal 2004 obbligano la R. a far lavorare il dott. T.” (v. ricorso per cassazione, pag. 37). Si tratta di provvedimenti giudiziari contenenti ordini di reintegrazione nelle funzioni dirigenziali. Che poi R. spa sia rimasta inottemperante a quei dicta è un fatto rilevante soltanto sotto il diverso profilo del perdurante demansionamento (e quindi della possibilità di ulteriore tutela reintegratoria nelle funzioni dirigenziali e risarcitoria dei danni patiti), ma non intacca il dato – rilevante nel presente giudizio – della natura genuinamente dirigenziale del rapporto di lavoro del T., anzi lo conferma.

In definitiva, quelle vicende confermano che il regime giuridico del rapporto di lavoro del ricorrente è quello dei dirigenti, sia pure “convenzionali”, nel senso che tale categoria è stata riconosciuta dalla contrattazione collettiva in relazione a determinate qualifiche giornalistiche, fra cui quella rivestita dal T..

Pertanto, ai sensi dell’art. 10 L. n. 604/1966, non trova applicazione il regime limitativo del licenziamento, né la correlativa tutela.

3. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

In particolare si duole del fatto che la Corte territoriale abbia omesso di esaminare il fatto storico, emergente da tutti gli atti di causa, secondo cui egli era rimasto completamente inattivo da novembre 2002. Conclude che proprio per tale ragione non poteva in alcun modo essere considerato dirigente.

Il motivo è inammissibile per due ragioni.

In primo luogo la Corte territoriale, contrariamente alla doglianza del ricorrente, ha esaminato quel fatto e lo ha ritenuto irrilevante (v. supra sub r).

In secondo luogo, alla luce delle considerazioni sopra svolte in relazione al primo motivo, comunque questo fatto si rivela non “decisivo”, perché in nessun caso il suo apprezzamento potrebbe determinare una diversa conclusione in termini di regime giuridico applicabile all’illegittimo licenziamento del T..

4. Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. il ricorrente lamenta violazione dell’art. 27 CCNLG dell’11/04/2001 e del 26/03/2009, dell’art. 11 del contratto integrativo aziendale dell’01/01/2010, degli accordi e delle convenzioni allegate del 23 marzo, 05 maggio e 2 giugno 2009 e 13 ottobre 2010, degli artt. 1362 ss. c.c. nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c.

Il motivo è inammissibile perché la Corte d’Appello ha affermato che in primo luogo questa questione era tardiva e tale statuizione non è stata censurata dal T..

Inoltre, il motivo è inammissibile laddove non contiene alcuna specifica censura all’argomentazione sviluppata dalla Corte territoriale circa la natura dirigenziale del ruolo e delle funzioni svolte dal T. già prima del rinnovo del contratto collettivo del 2009. Si è già detto al riguardo, peraltro, che il fatto che egli fosse rimasto inattivo sin dal 2002 è a tal fine irrilevante (v. supra).

Il motivo è altresì inammissibile per evidente contraddizione, laddove il ricorrente si chiede retoricamente quale fosse la ragione per stipulare un apposito accordo integrativo (v. ricorso per cassazione, pag. 49), dandosene poi egli stesso logica risposta, laddove ricorda che le parti avevano convenuto che “in considerazione della specificità del giornalismo radiotelevisivo del servizio pubblico, le modalità applicative di taluni aspetti normativi sono disciplinate dall’allegato accordo sottoscritto dalla R. e dall’UsigR.” (v. ricorso per cassazione, pag. 50). E proprio dallo sviluppo successivo del motivo si comprende come fossero state meritevoli di “adattamento” solo le “modalità applicative” di alcuni istituti del CCNLG, che tuttavia restavano fermi nel loro impianto regolativo di fondo, specie quanto alla considerazione delle figure giornalistiche apicali come dirigenti (non impiegati, né quadri).

Il motivo è inoltre inammissibile, laddove – a proposito della valenza da riconoscere alla comunicazione dell’11/02/2014 da R. spa al T. – il ricorrente non articola alcuna censura all’argomentazione sviluppata sul punto dalla Corte territoriale (v. supra, sub o), ma si limita a riproporre la sua ricostruzione del significato da attribuire a quella comunicazione.

Il motivo è infine inammissibile, laddove si prospetta un comportamento della R. spa contrario a buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto (v. ricorso per cassazione, pag. 54): trattasi di un profilo che introduce una questione nuova, di cui non solo non vi è traccia nella sentenza impugnata, ma della quale, altresì, il ricorrente non ha indicato l’atto processuale con cui l’avrebbe introdotta nei gradi di merito.

5. Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 36 e 39 Cost., dell’art. 2074 c.c., nonché – nuovamente – dell’art. 27 CCNLG dell’11/04/2001 e del 26/03/2009, dell’art. 11 del contratto integrativo aziendale dell’01/01/2010, degli accordi e delle convenzioni allegate del 23 marzo, 05 maggio e 2 giugno 2009 e 13 ottobre 2010, degli artt. 1362 ss. c.c.

In particolare il ricorrente si duole – in sintesi – dell’affermata efficacia retroattiva del ccnlg 26/03/2009 (decorrente dall’01/04/2009) a chi, come lui, era già dipendente di R. spa e, in virtù dei precedenti contratti collettivi, non poteva essere considerato dirigente.

Il motivo è inammissibile, sia perché privo di autosufficienza, laddove non è in alcun modo spiegata la solo affermata violazione delle due norme costituzionali citate, sia perché non si confronta con la ratio decidendi espressa dalla Corte territoriale, secondo cui, pur mancando nella regolamentazione collettiva anteriore al 2009 l’espressa attribuzione della qualifica dirigenziale alle figure del direttore, del condirettore e del vicedirettore, nondimeno vi erano specifiche previsioni circa le funzioni proprie di quelle qualifiche, tanto da imporre una disciplina totalmente separata dalla categoria impiegatizia. E ciò – ha concluso la Corte territoriale – era ampiamente sufficiente a far ritenere comunque dirigenziali quelle figure professionali anche in un periodo anteriore ad aprile 2009 (v. supra, sub n).

Trattasi di un’argomentazione totalmente priva della lamentata (ma inesistente) affermazione di un’efficacia retroattiva del contratto collettivo del 2009.

Infine non può trascurarsi che fra le medesime parti è intervenuta l’ordinanza di questa Corte n. 6262/2022, con cui, in ordine alla pretesa del T. all’indennità sostitutiva di ferie non godute, al punto 28. si è affermato: “28. La Corte territoriale ha accertato, in fatto, che il T. aveva il potere di autodeterminare le proprie ferie, che lo stesso non risulta aver mai avanzato richiesta di ferie, che non è stata dedotta né dimostrata alcuna necessità aziendale che abbia precluso al predetto il godimento delle ferie”.

Sulla base di tale accertamento di fatto, che implica la natura dirigenziale del ruolo ricoperto dal T. e delle funzioni da lui svolte, questa Corte ha in quella pronunzia respinto il ricorso incidentale del T., affermando il principio di diritto così massimato: “Il mancato esercizio del diritto alle ferie ed ai riposi determina il riconoscimento del diritto all’indennità sostitutiva ove sia dipeso dalla volontà del datore di lavoro o da eccezionali ed ostative necessità aziendali, sicché, nonostante la irrinunciabilità del diritto alle ferie, sancita dall’ultimo comma dell’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla Corte di giustizia UE (causa C-619/16 del 6.11.2018), l’indennità sostitutiva non spetta al lavoratore che, avendo il potere di autodeterminare le proprie ferie, non ne abbia fatto richiesta”.

L’ammissibilità del rilievo officioso di un giudicato esterno, anche in sede di legittimità, è imposta dai principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata ex art. 111 Cost. (Cass. n. 6102/2014) ed anche a prescindere dalle allegazioni delle parti, facendo ricorso, se necessario, a strumenti informatici e banche dati elettroniche (Cass. n. 29923/2020). Va infatti ribadito che, qualora il giudicato esterno fra le stesse parti si sia formato a seguito di una sentenza della Corte di cassazione, i poteri cognitivi del giudice di legittimità possono pervenire alla cognizione della precedente pronuncia anche mediante quell’attività d’istituto (relazioni preliminari ai ricorsi e massime ufficiali), che costituisce corredo della ricerca del Collegio giudicante, senza che tale esercizio del potere ufficioso comporti violazione del diritto di difesa delle parti, perché esse sono a conoscenza della formazione del precedente giudicato (Cass. n. 8614/2011).

6. Con il quinto ed ultimo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. il ricorrente prospetta la violazione degli artt. 389 c.p.c. e 144 disp.att.c.p.c., nonché dell’art. 1, co. 48 ss., L. n. 92/2012.

In particolare lamenta che la domanda restitutoria avanzata dalla R. spa nel giudizio di rinvio non gli era stata notificata, come invece impone l’art. 144 disp.att.c.p.c. Lamenta, altresì, che tale domanda non poteva comunque formare oggetto del giudizio di rinvio, comunque limitato al licenziamento, visto il rito da applicare (L. n. 92/2012).

Il motivo è infondato in relazione ad entrambe le censure.

L’art. 144 disp.att.c.p.c. è testualmente riferito al caso in cui la parte interessata alla restituzione (in conseguenza della cassazione di una sentenza di appello con rinvio) proponga la domanda restitutoria in separato ed autonomo giudizio. Nel caso di specie – come ha già ricordato anche la Corte territoriale, che ha esattamente citato Cass. n. 1779/2007 – la R. ha scelto di avanzare tale domanda nel medesimo giudizio di rinvio, sicché legittimamente l’ha proposta con il suo atto introduttivo, ossia con la memoria di costituzione a seguito della riassunzione già promossa dal T.. E comunque quell’atto ha raggiunto il suo scopo, tanto che il T. ha espressamente contraddetto sul punto, fra l’altro eccependo di essere tenuto a restituire la somma netta (e non lorda) effettivamente percepita (eccezione poi accolta dalla Corte territoriale).

Con riguardo al rito applicabile, deve essere ribadito che la domanda restitutoria è meramente consequenziale alla sentenza di cassazione di quella di appello in esecuzione della quale sia avvenuto il pagamento di una somma di denaro. Quindi non amplia in alcun modo il thema decidendum, che resta limitato al licenziamento illegittimo e alle sue conseguenze. Tanto è vero che, infatti, l’omessa pronunzia sulla domanda restitutoria non preclude l’autonoma proposizione della domanda in un separato giudizio, nemmeno se tale omissione non sia stata impugnata con ricorso per cassazione, perché in tal caso su di essa si forma un giudicato di mero rito (Cass. ord. n. 3527/2020).

7. Non vi è luogo a pronunzia sul ricorso incidentale, che resta assorbito, in quanto proposto in via solo condizionata all’eventuale accoglimento di quello principale, condizione che nella specie non si è verificata.

8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale; condanna il ricorrente principale a rimborsare a R. spa le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, cpa ed IVA.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.

Svuotamento delle mansioni e degli incarichi del dirigente: “pseudo-dirigente” o demansionamento?
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