Il dipendente pubblico del settore sanitario illegittimamente qualificato come parasubordinato e poi stabilizzato “in rapporto causale con gli abusi contrattuali” non ha diritto al risarcimento del “danno comunitario”.

Nota a Cass. (ord.) 27 novembre 2023, n. 32904

Maria Novella Bettini

“In materia di pubblico impiego contrattualizzato, in caso di abusivo ricorso ai contratti di lavoro a termine (nel settore  sanitario, ndr) cui sia succeduta l’assunzione del lavoratore a tempo indeterminato, il lavoratore ha diritto al risarcimento del “danno comunitario”, che prescinde dalla prova di un effettivo pregiudizio economico, salvo che sia stato successivamente “stabilizzato”, ovverosia sia stato assunto a tempo indeterminato dalla medesima pubblica amministrazione e in rapporto causale diretto con il precedente abuso dei contratti a termine, non essendo a tal fine sufficiente che l’assunzione sia stata semplicemente agevolata dall’abuso”.

Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (ord. 27 novembre 2023, n. 32904) la quale rileva che:

– nel settore del pubblico impiego, pur non essendo ammessa la possibilità di convertire i rapporti a termine abusivi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato (v. D.Lgs. n. 165/2001, art. 36, co. 5), va garantita al lavoratore un’effettiva tutela risarcitoria (in base alla normativa Eurounitaria) in misura forfettizzata tra un minimo e un massimo (L. n. 183/2010, ex art. 32, co. 5, poi sostituito dal D.Lgs. n. 81/2015, art. 28, co. 2), senza necessità di provare l’effettiva esistenza del danno (e ferma la possibilità di provare in concreto l’esistenza di un danno ulteriore; v., per tutte, Cass. S.U. n. 5072/2016);

– nondimeno, secondo il consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale l’assunzione del lavoratore a tempo indeterminato “rappresenta una misura ben più satisfattiva di quella per equivalente” ed è quindi idonea a cancellare tutte le conseguenze dell’abuso, senza necessità di ristoro pecuniario del “danno comunitario” (v. Cass. n. 22552/2016 e Cass. n. 16336/2017);

– è errato, quindi, applicare (come ha fatto la Corte d’Appello di Ancona) “il principio di diritto che prevede la risarcibilità in re ipsa del “danno comunitario”, senza considerare in alcun modo la giurisprudenza che esclude tale risarcibilità nel caso in cui l’illegittima precarizzazione sia sfociata nella stabilizzazione del rapporto”;

– occorre inoltre sottolineare (sempre in linea con la giurisprudenza) che per avere la suddetta efficacia sanante l’immissione in ruolo deve: a) provenire dal medesimo ente che ha commesso l’abuso (Cass. n. 7982/2018); b) avvenire in rapporto di diretta derivazione causale con l’illegittima successione dei contratti a termine (Cass. n. 14815/2021; Cass. n. 15353/2020).

I giudici concludono affermando che la Corte d’Appello avrebbe dovuto prendere in esame la “stabilizzazione” e verificare se si trattava “di una consolidazione del rapporto di lavoro avvenuta in ragione della precedente precarietà oppure di una assunzione soltanto agevolata dal precedente rapporto precario”. Tale aspetto appare infatti “irrinunciabile e decisivo” per stabilire se la lavoratrice avesse diritto al risarcimento del “danno comunitario”, nonostante la successiva instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la medesima amministrazione pubblica che aveva abusato dei contratti a termine.

 Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA 27 novembre 2023, n. 32904

Svolgimento del processo

L’attuale controricorrente convenne in giudizio la datrice di lavoro A.S.U.R. Marche chiedendone la condanna al pagamento di differenze retributive e al risarcimento dei danni, previo accertamento della natura effettiva di lavoro subordinato delle prestazioni rese in esecuzione di una serie consecutiva di contratti d’opera e di collaborazione coordinata continuativa stipulati con l’Azienda prima della sopravvenuta assunzione a tempo indeterminato con profilo di collaboratore amministrativo professionale categoria D. Instauratosi il contraddittorio, la domanda venne respinta dal Tribunale di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, che ritenne prescritto il diritto al pagamento delle differenze retributive e conseguentemente carente l’interesse ad agire per il mero accertamento della natura subordinata del rapporto antecedente all’assunzione, negando altresì la sussistenza di un danno risarcibile.

La sentenza di primo grado venne impugnata dalla lavoratrice davanti alla Corte d’Appello di Ancona, la quale, in parziale accoglimento dell’appello, accertò l’abusivo ricorso a contratti di lavoro subordinato a termine e condannò l’A.S.U.R. Marche al risarcimento del danno, liquidato in misura pari a sette mensilità della retribuzione globale di fatto, “avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”, come prescrive la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.

Contro la sentenza della Corte d’Appello l’Azienda ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. La lavoratrice si è difesa con controricorso. La ricorrente ha depositato altresì, con nuovo difensore subentrato al precedente, memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione

1.Con il primo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, in relazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 565, recepita dalla Regione Marche con D.G.R.M. 24 settembre 2007, n. 1021… (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. La ricorrente contesta alla Corte territoriale di avere liquidato il c.d. “danno comunitario”, che prescinde dall’onere della prova in concreto di un pregiudizio economico, nonostante l’intervenuta stabilizzazione del rapporto, che avrebbe dovuto essere riconosciuta essa stessa come un adeguato e satisfattivo rimedio alla illegittima precarizzazione (la quale deriva dall’accertamento della natura subordinata anche dei precedenti rapporti, accertamento in fatto “il cui sindacato è… precluso nel presente giudizio di legittimità”, come espressamente riconosciuto dalla stessa parte ricorrente a pag. 11 del ricorso per cassazione).

2. Con il secondo motivo l’A.S.U.R. Marche denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”. Anche questo motivo si concentra sulla intervenuta stabilizzazione del rapporto di lavoro, dolendosi la parte ricorrente che la sentenza impugnata non l’abbia presa in alcun modo in considerazione nel motivare sulla sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento della “indennità omnicomprensiva di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5”.

3. Il ricorso – i cui due motivi possono essere trattati congiuntamente, in ragione della stretta connessione – è fondato.

3.1. La Corte d’Appello di Ancona ha deciso la causa facendo applicazione del consolidato principio di diritto secondo cui, in materia di pubblico impiego, l’impossibilità di convertire i rapporti a termine abusivi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5) e la necessità di garantire tuttavia al lavoratore un’effettiva tutela risarcitoria (come imposto dalla normativa Eurounitaria) si contemperano nel riconoscimento in favore del lavoratore di un diritto soggettivo al risarcimento, in misura forfettizzata tra un minimo e un massimo (L. n. 183 del 2010, ex art. 32, comma 5, poi sostituito del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28, comma 2), senza necessità di provare l’effettiva esistenza del danno (e ferma invece la possibilità di provare in concreto l’esistenza di un danno ulteriore; v., per tutte, Cass. S.U. n. 5072 del 2016).

3.2. Tuttavia, nella sentenza impugnata si fa riferimento in più punti all’intervenuta stabilizzazione del rapporto, che risulta allegata concordemente da entrambe le parti (v. la narrazione dello svolgimento del processo alle pagg. 3, 4 e 5). A tale circostanza la sentenza non fa poi alcun cenno nella motivazione relativa alla sussistenza dei presupposti per la condanna dell’Azienda al risarcimento del “danno comunitario”.

Occorre allora ricordare l’altrettanto consolidato e condivisibile orientamento secondo cui l’assunzione del lavoratore a tempo indeterminato “rappresenta una misura ben più satisfattiva di quella per equivalente” ed è quindi idonea a cancellare tutte le conseguenze dell’abuso, senza necessità di ristoro pecuniario del “danno comunitario” (Cass. n. 22552/2016 e altre coeve e successive; principio inizialmente affermato con specifico riferimento alla stabilizzazione del personale docente della scuola, ma poi esteso anche ad altre categorie del pubblico impiego: v. Cass. n. 16336/2017).

Ne consegue che la Corte d’Appello ha errato applicando il principio di diritto che prevede la risarcibilità in re ipsa del “danno comunitario”, senza considerare in alcun modo la giurisprudenza che esclude tale risarcibilità nel caso in cui l’illegittima precarizzazione sia sfociata nella stabilizzazione del rapporto.

3.3. Siffatta giurisprudenza ha peraltro precisato che l’immissione in ruolo, per avere tale efficacia sanante, oltre a provenire dal medesimo ente che ha commesso l’abuso (Cass. n. 7982/2018), deve avvenire in rapporto di diretta derivazione causale con l’illegittima successione dei contratti a termine (Cass. n. 15353/2020; conf. Cass. n. 14815/2021, alla quale si rinvia per una più completa disamina dei precedenti conformi).

La Corte d’Appello avrebbe pertanto dovuto prendere in esame la “stabilizzazione” cui hanno fatto riferimento entrambe le parti (che, invece, ha totalmente ignorato) e verificare se si tratti proprio di una consolidazione del rapporto di lavoro avvenuta in ragione della precedente precarietà oppure di una assunzione soltanto agevolata dal precedente rapporto precario, aspetto irrinunciabile e decisivo per stabilire se la lavoratrice abbia o meno diritto al risarcimento del “danno comunitario”, nonostante la successiva instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la medesima amministrazione pubblica che aveva abusato dei contratti a termine (in questo caso, più precisamente, di contratti apparentemente di lavoro autonomo o parasubordinato, ma dei quali il giudice del merito ha accertato la reale natura di rapporti di lavoro subordinato).

3.4. Occorre pertanto cassare la sentenza impugnata con rinvio alla medesima Corte d’Appello di Ancona, perché decida, in diversa composizione, anche sulle spese del presente grado di legittimità, attenendosi al seguente, già consolidato, principio di diritto: “in materia di pubblico impiego contrattualizzato, in caso di abusivo ricorso ai contratti di lavoro a termine cui sia succeduta l’assunzione del lavoratore a tempo indeterminato, il lavoratore ha diritto al risarcimento del “danno comunitario”, che prescinde dalla prova di un effettivo pregiudizio economico, salvo che sia stato successivamente “stabilizzato”, ovverosia sia stato assunto a tempo indeterminato dalla medesima pubblica amministrazione e in rapporto causale diretto con il precedente abuso dei contratti a termine, non essendo a tal fine sufficiente che l’assunzione sia stata semplicemente agevolata dall’abuso”.

4. Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Abusi di contratti a termine nel settore sanitario, stabilizzazione e risarcimento del danno (Cass. n. 32904/2023)
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