Il tempo di vestizione e svestizione rientra nell’orario di lavoro e va retribuito se è assoggettato al potere di conformazione datoriale.

Nota a Cass. (ord.) 5 dicembre 2023, n. 33930

Raffaele Fabozzi

Nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro (v., nello stesso senso, la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla Direttiva n. 2003/88/CE e, in particolare, la decisione della Corte di Giustizia UE 10 settembre 2015, C-266/14). “L’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.

Questo, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (ord. 5 dicembre 2023, n. 33930; v. anche, in termini, Trib. Milano 4 luglio 2023, annotata in q. sito da F. GIROLAMI) la quale chiarisce che, nell’ambito del rapporto di lavoro, è necessario operare una distinzione fra una fase finale, direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell’orario di lavoro, ed una fase preparatoria riguardante le prestazioni o attività accessorie e strumentali che, sebbene vadano eseguite (nell’ambito della disciplina d’impresa ex art. 2104, co. 2, c.c.) e siano autonomamente esigibili dal datore di lavoro, sono tuttavia “rimesse alla determinazione del prestatore nell’ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro”.

Più specificamente, secondo la Corte, ai fini dell’eterodeterminazione del tempo e del luogo in cui indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, lo spazio temporale necessario per la vestizione e svestizione rientra nell’ambito del tempo di lavoro:

a) quando deriva dall’esplicita disciplina d’impresa;

b) ovvero quando risulta “implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”. Con la conseguenza che si può configurare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro qualora sussistano ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ovvero nel caso in cui gli indumenti “siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro” (così, Cass. n. 30958/2022; Cass. n. 8627/2020 e Cass. n. 17635/2019, in q. sito con nota di F. GIROLAMI).

Spetterà poi al giudice di merito valutare se le operazioni di vestizione e svestizione rientrino o meno nel potere di conformazione della prestazione da parte della società datrice – “in ordine al luogo ed alle modalità della prestazione, all’ottemperanza a prescrizioni datoriali contenute nel regolamento aziendale ed alla interpretazione del medesimo, al collegamento funzionale all’espletamento dell’attività in conformità con le previsioni di legge in tema di igiene”.

Nella fattispecie, la Corte di Appello di F., aveva confermato la pronuncia di primo grado che, in accoglimento del ricorso dei lavoratori aveva dichiarato il loro diritto ad avere incluso nell’orario di lavoro il tempo impiegato nella vestizione e svestizione delle divise aziendali e condannato la società a retribuire a ciascuno di loro 10 minuti per ogni giorno di lavoro effettivo a decorrere da luglio 2007 e fino alla data della pronuncia.

Sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 dicembre 2023, n. 33930

Lavoro – Orario – Tempo di vestizione e svestizione – Eterodirezione datoriale – Rigetto

Rilevato che

1.la Corte di Appello di F., con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che, in accoglimento del ricorso dei lavoratori in epigrafe indicati, tutti dipendenti di U. F. s.c., ha dichiarato il loro diritto ad avere incluso nell’orario di lavoro il tempo impiegato nella vestizione e svestizione delle divise aziendali e ha condannato la società a retribuire a ciascuno di loro 10 minuti per ogni giorno di lavoro effettivo a decorrere da luglio 2007 e fino alla data della pronuncia;

la Corte ha anche respinto l’eccezione di prescrizione sollevata dalla datrice di lavoro;

2. avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi; hanno resistito con distinti controricorsi gli intimati;

la parte ricorrente ha comunicato memoria;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni.

Considerato che

1.i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:

1.1. col primo mezzo si denuncia: “in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., violazione, falsa applicazione e, in ogni caso, non corretta interpretazione del d.lgs. 66/2003 art. 1 che individua la nozione di orario di lavoro in “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; si deduce che il Collegio d’appello avrebbe “fornito una interpretazione non corretta della legge in quanto ha fatto derivare l’eterodirezione datoriale da una norma del regolamento interno del 2008 che indicava esclusivamente il luogo in cui riporre la divisa da lavoro, senza peraltro considerare che la Società aveva emanato, nel 2013, una Circolare interna che escludeva l’obbligo di svolgere le operazioni di vestizione/svestizione nei locali aziendali ed escludeva quindi che durante questa fase i lavoratori fossero a disposizione del datore di lavoro, come previsto dall’art. 1 del d.lgs. 66/2003;

1.2. con il secondo motivo si denuncia: “in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., violazione, falsa applicazione e in ogni caso non corretta interpretazione del d. lgs. 66/2003 art. 1 relativamente al periodo successivo all’entrata in vigore del Regolamento aziendale del 2019”; si critica la sentenza gravata “per non aver escluso la sussistenza di eterodirezione in materia di vestizione/svestizione della divisa da lavoro dal momento che il Regolamento interno del marzo 2019 escluda esplicitamente l’eterodirezione datoriale”;

1.3. con il terzo motivo si denuncia: “in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per violazione, falsa applicazione e, in ogni caso, non corretta interpretazione dell’art. 101 c.p.c. relativo al diritto di difesa, per avere deciso sul merito il giudizio su questioni di igiene senza che le stesse fossero state dedotte nel ricorso introduttivo del giudizio e nonostante le eccezioni dell’appellante”; si eccepisce che la Corte territoriale “ha fondato il proprio convincimento sulla base del fatto che – anche a seguito dell’emanazione del nuovo Regolamento interno del 2019 – la divisa da lavoro dovesse essere indossata presso gli spogliatoi aziendali per una ragione di igiene, nonostante il tema dell’igiene fosse stato introdotto tardivamente da controparte nel giudizio di I grado e la Società non avesse potuto produrre l’idonea documentazione, comprovante la rispondenza del nuovo regolamento alle norme in materia di igiene e nonostante, in ogni caso, il Regolamento aziendale del 2019 lasciasse ai lavoratori piena libertà in tal senso”;

1.4. il quarto motivo denuncia: “in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. e 101 c.p.c. per avere la Corte territoriale fondato la sentenza sulla base della questione di igiene senza aver sollecitato il contraddittorio tra le parti, violando così l’art. 101, II comma, c.p.c.”;

1.5. col quinto mezzo si denuncia: “in relazione all’art. 360 c.1 n. 3 c.p.c., violazione, falsa applicazione e, in ogni caso, non corretta interpretazione dell’art. 115 cpc, comma 2, per avere la Corte aderito ad un concetto di comune esperienza in riferimento alla quantificazione del tempo tuta basato su una ricostruzione errata delle operazioni di vestizione/svestizione”; si sostiene che il Collegio avrebbe utilizzato una inesatta nozione di fatto notorio applicando un concetto di “comune esperienza” basando i propri assunti su fatti non corrispondenti alla realtà e manifestamente contrari alle risultanze istruttorie emerse nel corso del giudizio;

1.6. l’ultimo motivo denuncia: “in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per violazione, falsa applicazione e in ogni caso non corretta interpretazione del combinato disposto dell’art. 2948 n. 4 c.c. relativo alla decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti da pagarsi annualmente o in termini più brevi”;

2. i primi cinque motivi di ricorso non possono trovare accoglimento per le ragioni già esposte da questa Corte in precedenti adottati su vicende sostanzialmente sovrapponibili alla presente sottoposta all’attenzione del Collegio ed ai quali si rinvia, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., per ogni ulteriore aspetto qui non specificamente esaminato (in particolare, avuto riguardo ad analoghe censure, v. Cass. n. 30958 del 2022; in precedenza: Cass. n. 5437 del 2019; Cass. n. 33258 del 2021; Cass. n. 32477 del 2021);

2.1. la sentenza impugnata è conforme all’orientamento consolidato secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (v. Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in (C-266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento; invero, è stato precisato che “La soluzione adottata dalla Corte UE conferma quindi l’impostazione assunta da questa Corte anche in relazione alla fattispecie in esame, secondo la quale, riassuntivamente, occorre distinguere nel rapporto di lavoro tra la fase finale, che è direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell’orario di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, ma rimesse alla determinazione del prestatore nell’ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro […] l’eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione. Possono quindi determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro” (così Cass. n. 1352 del 2016, confermata da Cass. n. 30958/2022 cit., che rinvia in motivazione a Cass. n. 7738 del 2018, Cass. n. 17635 del 2019, Cass. n. 8627 del 2020);

2.2. ciò posto in diritto, l’accertamento in ordine al fatto che le operazioni di vestizione e svestizione rientrassero o meno nel potere di conformazione della prestazione da parte della società datrice – in ordine al luogo ed alle modalità della prestazione, all’ottemperanza a prescrizioni datoriali contenute nel regolamento aziendale ed alla interpretazione del medesimo, al collegamento funzionale all’espletamento dell’attività in conformità con le previsioni di legge in tema di igiene – costituisce indagine di competenza del giudice del merito, in quanto tale sottratta al sindacato di legittimità di questa Corte;

2.3. in Cass. n. 30958/2022 cit. è stato pure sottolineato che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, del resto, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, la non veridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso per cassazione; legittimamente, quindi, il giudice del merito può quantificare il tempo di vestizione e svestizione in base al tipo di indumento indossato dai lavoratori, utilizzando massime di esperienza agevolmente appartenenti ad una persona di media cultura (cfr. Cass. n. 33258 del 2021; Cass. n. 2786 del 2021; Cass. n. 21168 del 2021; Cass. n. 5437 del 2019);

2.4. per ogni residua censura vale aggiungere che: il primo e secondo motivo di ricorso sono inammissibili nella parte in cui solo nella forma prospettano una violazione e falsa applicazione di norme di diritto, violazione che, come noto, postula una ricostruzione dei fatti di causa incontestata, mentre con le censure in esame la società censura proprio ciò che la Corte territoriale, in fatto, ha ritenuto accertato, e cioè che le operazioni di vestizione e svestizione degli indumenti in controversia si svolgessero nell’ambito dell’esercizio del potere di conformazione del datore di lavoro e che, quindi, fossero eterodirette; circa il terzo e il quarto motivo, la circostanza che gli indumenti avessero a che fare con “questioni di igiene” emergeva dallo stesso Regolamento del 2008 (dove si faceva riferimento al “rispetto delle normative igienico sanitarie”) posto a fondamento delle pretese attoree sin dagli atti introduttivi del giudizio e, comunque, la questione è stata posta al contraddittorio delle parti pacificamente sin dal giudizio di primo grado, sicché certamente la sentenza di appello non può essere cassata sotto questo profilo; né, tanto meno, può ritenersi che tale elemento rientrasse tra i fatti costitutivi della domanda, la cui tardiva introduzione potesse dare luogo ad un inammissibile mutamento della medesima, atteso che, al più, si tratta di circostanza di fatto di natura secondaria che ha concorso, unitamente ad altri elementi, a indurre il convincimento dei giudicanti circa la sussistenza della eterodirezione datoriale nelle operazioni di vestizione e svestizione del personale;

4. le argomentazioni esposte impongono di disattendere la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea formulata dalla società ricorrente; invero, la proposta di quesito si fonda su presupposti di fatto diversi da quelli accertati dai giudici ai quali compete l’accertamento di merito e rende, pertanto, non pertinente né rilevante la richiesta di rinvio pregiudiziale (Cass. n. 1624 e n. 30422 del 2019), in quanto non si attaglia alla fattispecie oggetto del procedimento principale;

5. l’ultimo motivo è infondato alla luce del principio di diritto, già confermato in plurime occasioni da questa Corte, secondo cui: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro” (Cass. n. 26246 del 2022);

6. in conclusione il ricorso deve essere respinto nel suo complesso e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione ai procuratori di entrambi i controricorsi che hanno dichiarato di averne fatto anticipo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, con distrazione, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Tempo tuta ed eterodirezione
Tag:                                                                         
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: