Il tempo impiegato dagli infermieri per indossare e togliere il camice rientra nell’orario di lavoro e va sempre retribuito.

 Nota a Cass. (ord.) 1 luglio 2019, n. 17635

Fabrizio Girolami

Il tempo impiegato dagli infermieri di una A.S.L. per indossare e dismettere la divisa di lavoro (cd. “tempo-tuta”) fa parte dell’orario di lavoro e, come tale, deve essere retribuito. Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza 1° luglio 2019, n. 17635, che ha ribadito il proprio consolidato orientamento.

Nella vicenda di specie, alcuni lavoratori adibiti a mansioni di infermieri avevano convenuto in giudizio la Azienda Sanitaria Locale di Lanciano-Vasto-Chieti dinanzi al Tribunale di Chieti, lamentando la mancata retribuzione del periodo di tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa di lavoro (camice, mascherina, protezioni).

Perso il primo grado di giudizio, l’Azienda avevano proposto appello, ottenendo una nuova decisione sfavorevole. In particolare, la Corte di Appello di L’Aquila – nel confermare la decisione del Tribunale di Chieti – aveva rilevato che – come emerso dagli atti di causa – il personale infermieristico era tenuto ad indossare e dismettere la divisa di lavoro, per ragioni di igiene e sanità pubblica, negli appositi ambienti deputati dell’azienda – e non presso la propria abitazione – prima dell’entrata e dopo l’uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro.

Il giudice di appello aveva applicato i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui laddove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo per indossare la divisa di lavoro (e, quindi, anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e, come tale, non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è “eterodiretta” dal datore di lavoro, che ne disciplina tempo e luogo, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (Cass. 10 settembre 2010, n. 19358; Cass. 2 luglio 2009, n. 15492; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15734).

La Corte territoriale aveva inoltre ritenuto che, nel caso di specie, la sussistenza di un potere conformativo del datore di lavoro (cd. “eterodirezione”) era implicitamente confermata dalla natura degli indumenti di lavoro (camice e mascherina protettiva) ben specifici e caratterizzati, tali da escludere che gli stessi potessero essere liberamente indossati anche all’esterno dell’ambito lavorativo e da far ritenere, al contrario, che il tempo impiegato per la relativa vestizione costituisse orario di lavoro effettivo con relativo diritto alla retribuzione.

Poiché l’adempimento della vestizione della divisa, ancorché rientrante negli atti propedeutici all’espletamento della prestazione lavorativa vera e propria, non era rimesso alla libertà del lavoratore, tanto che la A.S.L. poteva rifiutare la prestazione lavorativa senza di esso, la Corte d’Appello aveva concluso che il tempo impiegato dagli infermieri era da intendersi strettamente funzionale all’esecuzione della prestazione lavorativa, integrando un corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro. Pertanto, il giudice di primo grado, aveva correttamente riconosciuto la retribuibilità del tempo tuta degli infermieri, valutando in via equitativa, relativamente alla quantificazione del tempo occorrente ai lavoratori per anticipare, prima dell’inizio del turno, e posticipare, a fine turno, la timbratura del cartellino al fine di potere completare l’orario previsto, nella misura di circa 15 minuti per la vestizione del camice ed altrettanti per la svestizione.

La A.S.L. aveva proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d’Appello, lamentando l’erronea applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza della Cassazione in ordine alla “eterodirezione” della prestazione di vestizione e svestizione preparatoria dell’adempimento della prestazione lavorativa, deducendo che  l’elemento qualificante la eterodirezione sarebbe costituito dalla determinazione, da parte del datore di lavoro, delle modalità e della tempistica dell’esecuzione e che, nella vicenda di specie, gli infermieri non avevano fornito la prova dell’esistenza di puntuali disposizioni dell’Azienda ricorrente che imponessero ai lavoratori determinate modalità di effettuazione delle operazioni vestizione e svestizione.

La Cassazione ha rigettato il ricorso della A.S.L., non ritenendo condivisibili i motivi di doglianza eccepiti.

Il giudice di legittimità richiama il proprio consolidato orientamento (Cass. 11 febbraio 2019, n. 3901, in questo sito, con nota di M. N. BETTINI e F. BELMONTE, Tempo vestizione infermieri; Cass., ord., 11 gennaio 2019, n. 505, in questo sito, con nota di F. GIROLAMI, Computabilità del “tempo-tuta” nell’orario di lavoro: la Cassazione ribadisce i “paletti” per la relativa retribuzione; Cass. 24 maggio 2018, n. 12935; Cass. 22 novembre 2017, n. 27799; Cass., S.U., 16 maggio 2013, n. 11828), secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da “eterodirezione”, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo a percepire un’autonoma remunerazione.

Secondo la Cassazione, la “eterodirezione” del datore di lavoro può derivare, non soltanto dall’esplicita disciplina contrattuale applicata nell’impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti – quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento – o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto (in tal senso, Cass. 28 marzo 2018, n. 7738, in questo sito, con nota di F. GIROLAMI, La computabilità e retribuibilità del c.d. “tempo-tuta” nell’orario di lavoro; Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352).

Con specifico riferimento al personale infermieristico, il tempo per la vestizione/svestizione della divisa costituisce un’attività svolta non nell’interesse del datore di lavoro ma per esigenze di sicurezza e igiene ambientale, nonché dell’incolumità del personale addetto, sicché la stessa deve ritenersi implicitamente autorizzata dall’Azienda e, anzi, da essa imposta, potendo in mancanza l’Azienda rifiutare di ricevere la prestazione. Pertanto, secondo il giudice di legittimità, in tema di lavoro all’interno delle strutture ospedaliere, anche in caso di silenzio sul punto da parte della contrattazione collettiva integrativa, va computato nell’orario di lavoro giornaliero, con corrispondente diritto alla retribuzione, il tempo di vestizione e svestizione della divisa, trattandosi di obbligo imposto da superiori esigenze di sicurezza e igiene ambientale, nonché di incolumità dello stesso personale addetto al servizio.

Riconducibilità del “tempo-tuta” all’orario di lavoro: la Cassazione riconosce il diritto alla relativa retribuzione a favore degli infermieri
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