L’onere probatorio può essere assolto anche attraverso l’allegazione di presunzioni.

Nota a Cass., Sez. lav. (ord.), 8 marzo 2024, n. 6275

Fabrizio Girolami

Il danno da demansionamento non è automatico (c.d. “in re ipsa”) e la sua prova può essere fornita, dal lavoratore, con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, e in particolare, ai sensi dell’art. 2729 c.c., mediante l’allegazione di “presunzioni” (ossia con un procedimento tramite il quale un fatto “ignoto” – i.e. l’esistenza del danno – è desunto da un fatto “noto” – con la dimostrazione di elementi da cui desumere la dequalificazione professionale ) purché le stesse siano “gravi, precise e concordanti”. A tale riguardo, possono essere valutati, quali elementi presuntivi: a) la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta; b) il tipo e la natura della professionalità coinvolta; c) la durata del demansionamento; d) la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione; e) i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6275 dell’8.3.2024 in relazione alla vicenda di una lavoratrice dipendente di una società operante nel settore della produzione di componenti elettronici e circuiti elettronici per produttori di apparecchiature originali, la quale aveva agito in giudizio al fine di ottenere una declaratoria di accertamento di condotte demansionanti dal febbraio 2013 sino alla data di cessazione del rapporto di lavoro, con conseguente richiesta di risarcimento dei danni subiti.

Analogamente alla decisione di primo grado, la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 1275/2022, aveva rigettato la richiesta della lavoratrice, non avendo ritenuto allegato alcun profilo di danno.

La Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha invece accolto il ricorso proposto dalla lavoratrice, cassando la sentenza impugnata, sulla base delle seguenti argomentazioni:

  • secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità il danno da demansionamento non è “in re ipsa” (cfr., tra le altre, Cass., S.U., 24.03.2006, n. 6572; Cass. 6.12.2005 n. 26666), sicché la sua prova può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, potendo essere valutati, quali elementi presuntivi, “la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione” (cfr., in tal senso, Cass. 15.02.2021, n. 3822; Cass. 19.12.2008, n. 29832; Cass. 26.06.2006, n. 14729);
  • posto che la prova del danno può essere tratta anche attraverso la allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, la Corte territoriale “non ha valutato, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata dell’adibizione alle mansioni di produzione (da comparare a quelle di natura impiegatizia precedentemente ricoperte), la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo il corso di formazione ricevuto, i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone” e suscettibili “di valutazione ai fini dell’accertamento di un danno professionale, sia nel profilo di un eventuale deterioramento della capacità acquisita sia nel profilo di un eventuale mancato incremento del bagaglio professionale”;
  • la Corte d’appello ha disatteso i principi sopra richiamati e, in particolare, quello per cui “ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva od interiore, ma oggettivamente accertabile sul fare areddituale del soggetto va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni” (cfr. la citata Cass. n. 29832/2008, cit.);
  • pertanto, la sentenza impugnata non è conforme al principio di legittimità (cfr., ex aliis, le già menzionate Cass., S.U., n. 6572/2006 e Cass. n. 26666/2005) secondo cui “se è vero che il danno da demansionamento non è in re ipsa; tuttavia, la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’articolo 2729 del Codice civile, ovvero attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti”;
  • la Corte territoriale ha effettuato erronea applicazione del principio della “ragione più liquida”, dovendo, preliminarmente, verificare “la sussistenza del demansionamento prospettato dalla lavoratrice” e, in caso di accertamento positivo, valutare “la ricorrenza di un eventuale pregiudizio”;
  • in materia, va richiamato il principio stabilito dalla recente giurisprudenza di legittimità secondo cui “quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (cfr., tra le altre, Cass. 02. 01.2024, n. 48; in senso conforme, Cass. 26.11.2020, n. 27078, in sito, con nota di F. GIROLAMI).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE ORDINANZA 8 MARZO 2024, n. 6275

Rilevato che

1.Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Napoli ha confermato la pronuncia del giudice di prime cure e, applicando il principio della “ragione più liquida”, ha rigettato la domanda proposta da Ca.Ma. nei confronti di (…) Srl ed (…) Spa di accertamento di condotte demansionanti dal febbraio 2013 sino alla data di cessazione del rapporto di lavoro non avendo ritenuto allegato alcun profilo di danno;

2. la Corte territoriale, ritenuto il principio della “ragione più liquida” espressione di una norma di sistema ormai consolidata in giurisprudenza e rilevato che la prova presuntiva del danno si distingue dal danno in re ipsa, ha sottolineato la carenza, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’allegazione di un danno in concreto sofferto;

3. per la cassazione della sentenza ricorre il lavoratore sulla base di due motivi cui resistono con distinti controricorsi le società;

4. al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.

Considerato che

1.Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e omesso esame di un punto decisivo della domanda, ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., avendo, la Corte territoriale (al pari del Tribunale), omesso di esaminare le pagg. 1-12 del ricorso introduttivo del giudizio e rigettato la domanda applicando il c.d. principio della ragione più liquida; la Corte territoriale avrebbe dovuto effettuare la valutazione della sufficienza delle allegazioni in tema di danno proprio sulla base delle deduzioni inserite alle suddette pagine, omissione compiuta dal giudice di primo grado censurata espressamente con l’atto di appello. Infine, la domanda di risarcimento danni concerneva il danno professionale e patrimoniale subito nonché il danno esistenziale, con esclusione del danno biologico (improvvidamente ritenuto generico dalla Corte territoriale).

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., 112 cod. proc. civ., 2103, 2697, 2727, 2729, 1218 cod.civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., avendo, la Corte territoriale ritenuto – sulla scorta dell’orientamento consolidato di legittimità – che il danno da demansionamento può provarsi anche in via presuntiva, ma avendo, poi, contraddittoriamente rilevato che erano state omesse le allegazioni del danno in concreto ossia “l’impossibilità di trovare possibilità di lavoro esterno”, “la propria professionalità”, “eventuali occasioni perdute”, “eventuali perdite di chance” l’impossibilità di ottenere avanzamenti in carriera”, “le ragionevoli aspettative frustrate”. La lavoratrice aveva indicato, nelle pagine da 1 a 12 le allegazioni necessarie ai fini della sufficienza dell’individuazione dei danni subiti.

3. I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati.

4. La Corte di merito ha esattamente, in astratto, richiamato il principio di legittimità secondo cui il danno da demansionamento non è in re ipsa (cfr. Cass. Sez. Un. n. 6572/2006; Cass. 6.12.2005 n. 26666); lo stesso orientamento giurisprudenziale ha precisato che la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione (cfr. Cass. n. 14729 del 2006; Cass. n. 29832 del 2008; da ultimo, fra le tante, cfr. Cass. n. 3822 del 2021). La Corte di merito, pur richiamando i suddetti orientamenti, ha però in modo non condivisibile ritenuto non allegato il patito danno, non applicando correttamente, attraverso un prudente apprezzamento, il procedimento presuntivo da cui risalire al fatto ignoto (esistenza del danno) da quello noto (dimostrazione comunque di una dequalificazione accertata per le ragioni esplicitate nella gravata pronuncia) e non considerando, altresì, che le circostanze poste a fondamento della pretesa, da cui potere desumere la perdita di alcuni tratti qualificanti la professionalità del lavoratore, erano state rite et recte evidenziate nel ricorso introduttivo.

5. Posto che la prova del danno può essere tratta anche attraverso la allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, la Corte non ha valutato, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata dell’adibizione alle mansioni di produzione (da comparare a quelle di natura impiegatizia precedentemente ricoperte), la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo il corso di formazione ricevuto, i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone, tutte caratteristiche specifiche dell’attività svolta dalla Canta allegate nel ricorso introduttivo del giudizio (come riprodotto nel ricorso per cassazione) e suscettibili di valutazione ai fini dell’accertamento di un danno professionale, sia nel profilo di un eventuale deterioramento della capacità acquisita sia nel profilo di un eventuale mancato incremento del bagaglio professionale.

6. La Corte di appello ha disatteso i principi sopra richiamati, in particolare quello secondo cui ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva od interiore, ma oggettivamente accertabile sul fare areddituale del soggetto va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni (cfr. Cass. n. 29832 del 2008).

7. La gravata sentenza non è, dunque, conforme al principio di legittimità (ex aliis cfr. Cass. Sez. Un. N. 6572/2006; Cass. 6.12.2005 n. 26666) secondo cui, se è vero che il danno da demansionamento non è in re ipsa, tuttavia la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c.

8. Dovendosi, dunque, riscontrare nelle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio elementi presuntivi che possono essere valutati per l’accertamento di un eventuale danno, la Corte di rinvio ha effettuato erronea applicazione del principio della “ragione più liquida”, dovendo, preliminarmente, verificare la sussistenza del demansionamento prospettato dalla lavoratrice e, in caso di accertamento positivo, valutare la ricorrenza di un eventuale pregiudizio. In materia, va richiamata la recente statuizione di questa Corte secondo cui “Quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (Cass. n. 48 del 2024).

9. In conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che determinerà, altresì, le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che liquiderà, altresì, le spese del presente giudizio di legittimità.

Danno da demansionamento e prova
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