I reati commessi fuori dal rapporto di lavoro e in un’epoca antecedente all’instaurazione dello stesso non configurano una giusta causa di licenziamento, se non sia venuto meno il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro.

Nota a Cass. 20 febbraio 2024, n. 4458

Pamela Coti

Le condotte, costituenti reato, poste in essere dal lavoratore prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro possono integrare giusta causa di licenziamento solo se la condotta extralavorativa, per la quale sia intervenuta condanna irrevocabile, risulti incompatibile con l’essenziale rapporto fiduciario col datore di lavoro.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione 20 febbraio 2024, n. 4458 con riferimento al caso del licenziamento per giusta causa di un lavoratore, intimatogli dalla società datrice per essere stato condannato in via definitiva, prima dell’assunzione, per il delitto di associazione mafiosa, ex art. 416 bis c.p. in relazione a fatti avvenuti 20 anni prima.

Al riguardo, la Cassazione, conformandosi ad un consolidato orientamento, ha rilevato che:

  • può configurarsi un illecito disciplinare, passibile di licenziamento, nel solo caso in cui il lavoratore riporti una condanna penale per reati non afferenti alle mansioni svolte, ma di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro e l’affidamento di questi sul futuro, corretto adempimento o comunque l’affidabilità del lavoratore nello svolgimento delle mansioni affidategli;
  • il pregiudicato ha diritto a reinserirsi nella società espletando un lavoro onesto; consentire di licenziare qualcuno solo perché pregiudicato, senza valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti, significa impedire il reinserimento del condannato, violando l’art. 27 Cost.;
  • l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa; ciò non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità o all’inidoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (v. Cass. n. 27004/2018; Cass. n. 2830/2016; Cass. n. 4060/2011; Cass. n. 5372/2004;);
  • in sintesi, perciò: “condotte costituenti reato possono – anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso – integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino – attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto – incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”(Cass. n. 24259/2016);
  • la condanna del lavoratore molto risalente nel tempo, pur essendo teoricamente infamante, esclude l’applicazione della sanzione espulsiva qualora non incida sul rapporto di lavoro in atto, né metta in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future e non comprometta l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti, tenuto, altresì, conto delle mansioni espletate dal lavoratore, sì da ritenere che non sussiste una pericolosità sociale attuale dello stesso.

Sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA  20 febbraio 2024, n. 4458

Svolgimento del processo

1.la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di prime cure con cui è stata accolta l’impugnativa del licenziamento intimato per giusta causa a A.A. dalla Monteco Srl, esercente attività di raccolta di rifiuti solidi urbani, con conseguente condanna alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del recesso fino a quello dell’effettiva reintegra;

2. la Corte ha, innanzitutto, evidenziato che l’art. 73 del CCNL Servizi ambientali applicabile al rapporto prevede il licenziamento senza preavviso “per condotte poste in essere nell’esercizio dell’attività lavorativa, come l’insubordinazione nei confronti dei superiori gerarchici, l’uso delle vie di fatto, quindi l’aggressione ai danni dei colleghi o dei superiori, il furto perpetrato in azienda e anche l’aver riportato condanne per reati infamanti commessi nell’esercizio dell’attività lavorativa”;

ha comunque argomentato che, “in ogni caso, a prescindere dalla specifica previsione contrattuale, riveste carattere generale il principio secondo cui possa configurarsi un illecito disciplinare passibile di licenziamento nel caso in cui il lavoratore riporti una condanna penale per reati non afferenti le mansioni svolte, ma di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro e l’affidamento di questi sul futuro corretto adempimento”; secondo la Corte, “nel caso di specie la condanna penale riportata dal lavoratore attiene a reati certamente gravi (art 416 bis c.p.c.) ma commessi oltre venti anni prima rispetto alla contestazione disciplinare (dal 1989 al 1994) e la condanna penale ha acquisito definitività nel 2009, comunque molti anni prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro con la Monteco, avvenuto nel 2016, e del licenziamento disciplinare, avvenuto nel 2019, essendosi protratto il rapporto di lavoro per tanti anni, di cui gli ultimi tre alle dipendenze della stessa Monteco, senza alcun rilievo disciplinare nei confronti del dipendente”; si aggiunge: “in ogni caso si rileva che la giurisprudenza sottolinea che il fatto per cui si è riportata condanna penale, pur non attenendo direttamente alle mansioni svolte, deve essere idoneo a minare la fiducia del datore di lavoro nei futuri adempimenti o comunque nella fedeltà e affidabilità del lavoratore nello svolgimento delle mansioni affidategli. Nel caso di specie tale condanna, pur essendo teoricamente infamante, non ha però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti. Infatti, costui lavora addetto alla raccolta dei rifiuti del Comune di Massafra sin dal 1995, alle dipendenze degli appaltatori che si sono susseguiti nell’espletamento dell’appalto e solo dal 18/10/2016 alle dipendenze della appellante, come autista dei mezzi adoperati per la raccolta dei rifiuti e non si comprende quale effetto possa spiegare tale condanna sul corretto esercizio delle mansioni, tanto più che già dal 2009 e fino al licenziamento nessun effetto tangibile è emerso”;

i giudici d’appello, inoltre, hanno sottolineato il “diritto anche del pregiudicato a reinserirsi nella società, espletando un lavoro onesto”, mentre “consentire di licenziare qualcuno solo perché pregiudicato, senza valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti, significa impedire il reinserimento del condannato, che invece il nostro Stato propugna (art. 27 Cost.)”;

infine, per la Corte “non hanno trovato riscontro gli accenni alla normativa antimafia, il cui art. 85 D.Lgs. 159/2001 preclude l’accesso ad appalti pubblici ad imprese i cui organi apicali siano in odore di mafia, non certo alle imprese i cui dipendenti abbiano precedenti penali, né sussiste un rischio attuale di misure interdittive a carico dell’impresa”;

3. quanto alla tutela applicabile ad un contratto soggetto alla disciplina del D.Lgs. n. 23 del 2015, conformemente al primo giudice, la Corte ha ritenuto che “il fatto contestato non sussiste affatto e non solo non è tanto grave da giustificare il licenziamento (…) non sussiste perché i precedenti penali del lavoratore sono irrilevanti dal punto di vista disciplinare”; ragione per cui è stata disposta la reintegrazione prevista dall’art. 3, comma 2, del decreto citato;

4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente società con tre motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

Motivi della decisione

1.il primo motivo di ricorso denuncia: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2119c.c. nonché dell’art. 1, l. n. 604 del 1966(art. 360 n. 3 c.p.c.) anche in relazione all’art. 73 del CCNL Servizi Ambientali FISE Assoambiente ratione temporis applicato al rapporto di lavoro in questione”; si critica la sentenza impugnata perché “dallo stesso tenore letterale del citato articolo 73 del CCNL in relazione alla previsione di cui all’art. 2119 c.c. non è possibile neppure ipotizzare che le parti sociali si siano volute riferire unicamente a reati “infamanti commessi nell’espletamento dell’attività lavorativa””; si aggiunge che “l’esemplificazione contenuta nella previsione di cui al CCNL è meramente esemplificativa e del resto è, altresì, precisato proprio nell’art. 73 citato che le mancanze relative a doveri del lavoratore sono riferibili anche a quelle non particolarmente richiamate nel presente contratto e che la elencazione che ne segue è meramente esemplificativa”;

col secondo motivo si denuncia: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché dell’art. 1, l. n. 604 del 1966 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”; si critica diffusamente la sentenza impugnata per non avere fatto corretta applicazione della clausola elastica della “giusta causa”; in particolare, si contesta la Corte di Appello per aver ritenuto che i fatti addebitati al sig. A.A., avuto riguardo alla circostanza che si fossero consumati in epoca risalente nel tempo, non rivestissero “il carattere di grave negazione dell’elemento fiduciario necessariamente sotteso al rapporto di lavoro, e ciò anche in considerazione della natura e della qualità del rapporto, dalla particolare attività svolta dalla Società”, gerente appalti con la pubblica amministrazione;

2. i motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non sono meritevoli di accoglimento;

2.1. la Corte territoriale, innanzitutto, non ha affatto ritenuto ingiustificato il licenziamento sulla base del solo riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva, ma – come risulta dallo storico della lite – dopo avere tenuto conto delle indicazioni contenute nell’art. 73 del contratto collettivo applicabile al rapporto ha, comunque, “a prescindere dalla specifica previsione contrattuale”, escluso che la condotta addebitata rivestisse i caratteri della grave negazione del vincolo fiduciario con il datore di lavoro alla luce dell’art. 2119 c.c.;

ciò in coerenza con gli arresti consolidati di questa Corte, secondo cui, da un canto, le previsioni dei codici disciplinari contenute nei contratti collettivi costituiscono parametro integrativo della clausola generale di fonte legale configurata dalla giusta causa o, con diversità solo di grado, dal giustificato motivo soggettivo di licenziamento, per cui, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (in termini Cass. n. 9396 e n. 28492 del 2018, per le quali dalle valutazioni del codice disciplinare “il giudice non può prescindere”); d’altro canto, però, dalla natura legale della nozione deriva simmetricamente che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018);

2.2. ciò posto, vale ribadire quanto già affermato da questa Corte con riferimento a condotte extra lavorative, integranti illecito penale, tenute prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo (cfr. Cass. n. 24259 del 2016; conf. Cass. n. 3076 del 2020);

infatti, in tanto può aversi una responsabilità disciplinare in quanto si tratti d’una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso (quantunque non necessariamente in connessione con le mansioni espletate); diversamente, non si configura neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione, l’unica che possa dare luogo ex art. 2106 c.c. a responsabilità disciplinare; anche là dove i contratti collettivi inseriscano nel novero degli illeciti disciplinari, puramente e semplicemente, l’avere il lavoratore riportato condanna penale per determinati fatti-reato non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, nondimeno tali previsioni possono definirsi stricto sensu come disciplinari soltanto ove la condotta criminosa e la condanna abbiano avuto luogo durante il rapporto medesimo;

tuttavia, il precedente richiamato chiarisce come ciò non significhi che condotte costituenti reato non possano integrare giusta causa di licenziamento pur essendo state realizzate a rapporto lavorativo non ancora in corso e non in connessione con esso; è noto, infatti, che per giusta causa ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1 legge n. 604 del ’66 non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto;

avuto specifico riguardo all’ipotesi che la condotta criminosa sia stata realizzata prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, secondo Cass. n. 24259/2016 cit., il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l’essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto: “Condotte costituenti reato possono – anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso – integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino – attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto – incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”;

2.3. nella specie i fatti addebitati non solo sono assai risalenti nel tempo (in quanto commessi tra il 1989 e il 1994), ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna è precedente (2009) alla instaurazione del rapporto di lavoro; inoltre, la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la “condanna, pur essendo teoricamente infamante, non ha però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti”, anche in considerazione del rilievo che il A.A., come autista dei mezzi adoperati per la raccolta dei rifiuti, non ha – secondo la Corte territoriale – “né potere gerarchico su altri soggetti, così da immaginare un potere di influenzare altri soggetti, né potere decisionale nell’ambito della società, così da poter intravedere un rischio di infiltrazioni mafiose nella società, tanto più che i fatti sono stati commessi oltre vent’anni fa e non risulta che costui continui a perpetuare il reato o comunque assuma atteggiamenti mafiosi o ancora sia sottoposto alla sorveglianza speciale, sì da ritenere che sussista una pericolosità sociale attuale dello stesso”;

2.4. rispetto a questa valutazione compiuta dai giudici del merito, che non hanno ritenuto condotte così risalenti incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario connotante il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, è sufficiente richiamare i noti i limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (per i quali si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022 e, da ultimo, Cass. n. 107 del 2024);

in particolare, è stato evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005);

ciò posto, al cospetto della motivazione con cui la Corte territoriale ha escluso che i fatti addebitati, estranei al rapporto lavorativo, sebbene sicuramente gravi, potessero assumere rilevanza disciplinare attuale, in quanto molto risalenti nel tempo ed anche in considerazione delle mansioni espletate dal lavoratore, oltre ad essere comunque precedenti all’instaurazione del rapporto, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, per cui la denuncia, mancando l’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, si traduce in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito;

3. da quanto precede deriva l’infondatezza anche del terzo motivo di gravame, con cui ci si duole della tutela reintegratoria riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato nel vigore della disciplina del cd. Jobs Act, in quanto la sentenza impugnata è dichiaratamente conforme a Cass. n. 12174 del 2019, secondo cui: “In tema di licenziamento disciplinare, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare” (conf. Cass. n. 30469 del 2023);

tale principio, secondo cui l’irrilevanza disciplinare del fatto, così come ritenuta dai giudici del merito, determina conseguenze reintegratorie, deve essere qui ribadito, con conseguente rigetto della censura in esame;

4. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con condanna alle spese secondo il regime della soccombenza, con attribuzione all’Avv. Del Vecchio che si è dichiarato anticipatario;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente società, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre esborsi pari ad Euro 200,00, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, da distrarsi.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Comportamenti extralavorativi costituenti reato e giusta causa di licenziamento
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