Nota a Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291

Francesca Albiniano

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016, è intervenuta nuovamente sull’annosa questione delle condotte vessatorie perpetrate a danno del lavoratore (medico), riconoscendo, in caso di demansionamento (con trasferimento di reparto), tutela al dipendente, vittima di atti persecutori, anche qualora essi non siano riconducibili alla categoria ontologica del mobbing, ma ad una forma, per così dire attenuata, denominata straining.

La pronuncia scaturisce dalla richiesta di riconoscimento dei “danni da mobbing” avanzata da un medico vittima di una “situazione lavorativa conflittuale di stress forzato” realizzata dal primario del reparto in cui prestava servizio. La Corte, pur escludendo che le azioni ostili subìte dal lavoratore abbiano dato luogo ad un vero e proprio mobbing, mancando l’elemento della “frequenza” della condotta persecutoria, non ha esonerato da responsabilità il datore di lavoro, individuando, nelle condotte denunciate, gli estremi dello straining.

Ciò in quanto, la situazione conflittuale e stressante in cui operava la vittima subendo vessazioni, seppur limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing), era tale da provocarle una “modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa”.

Invero la locuzione straining deriva dal verbo inglese to strain che, tradotto letteralmente, significa stringere ovvero mettere sotto pressione,per la cui configurabilità, a differenza del mobbing, è sufficiente anche un’unica azione ostile, purché provochi conseguenze tali da far sì che la vittima percepisca di essere in una continua posizione di costante inferiorità rispetto agli aggressori.

Nella specie, secondo la Cassazione si riscontrano tutti i parametri dello straining, quali: ambiente lavorativo; frequenza, durata e tipo di azioni; dislivello tra gli antagonisti; andamento successivo secondo fasi alterne (v., EDGE, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Angeli,2005).

Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo, la condotta può essere sanzionata in virtù degli artt. 2087 c. c. e 28 D.Lgs.9 aprile 2008, n. 81, dando luogo, eventualmente, anche a comportamenti penalmente rilevanti (vedi, per tutte, Cass. Pen. 3 luglio 2013, n. 28603).

Appare dunque chiara la differenza con il mobbing, la cui identificazione, invece, richiede comportamenti atipici, consistenti in qualsiasi azione o omissione di carattere molesto e vessatorio, che abbia i requisiti della durata e della sistematicità, ovvero si concretizzi in un unico atto persecutorio i cui effetti si protraggano nel tempo (sulla nozione e requisiti del mobbing, v. Cass. 8 gennaio 2016, n. 158; Cass. 8 luglio 2015, n. 14724; Cass. 25 settembre 2014, n. 20230; Cass. 28 agosto 2013, n. 19814).

Nella sentenza in esame è ribadito, poi, l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da comportamenti che ledano la personalità morale del lavoratore “come l’adozione di condizioni di lavoro “stressogene” o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi…” (v. Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).

Lo “straining” quale forma di mobbing attenuato
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