Le situazioni di disagio ovvero di conflitto sul luogo di lavoro non sono idonee a comprovare l’esistenza, giuridicamente rilevante, del mobbing.
Nota a Trib. Ascoli Piceno, sez. lavoro, 4 marzo 2016, n. 77
Francesca Albiniano
La strategia persecutoria che qualifica il mobbing, avente come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza, non può sostanziarsi in singoli atti da ricondurre nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro. L’illecito può ritenersi sussistente solo allorquando si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dalla eventuale prevedibilità e dal manifestarsi in concreto di simili effetti (v., Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012, n.14).
Questo è il principio enunciato dal Tribunale di Ascoli Piceno su ricorso di una dipendente che, convenendo in giudizio la società ex datrice di lavoro, impugnava il licenziamento intimatole per giustificato motivo oggettivo, lamentandone il carattere discriminatorio con violazione dell’obbligo di repechage. La dipendente, inoltre, rivendicava il risarcimento del danno da mobbing, evidenziando di aver subito ripetuti aspri ed ingiustificati rimproveri, nonché di essere stata sottoposta, durante le ore di lavoro, al controllo costante di una telecamera.
La lavoratrice, quindi, chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro con le conseguenze risarcitorie di cui all’art.18 L. n. 300/1970 ovvero, in via subordinata, la riassunzione nel posto di lavoro con le conseguenze risarcitorie di cui all’art. 8 L. n. 604/1966 ed il riconoscimento, con conseguente risarcimento, del danno da mobbing.
Il giudice di prime cure, rigettando il ricorso, osservava l’infondatezza delle pretese della ricorrente evidenziando in primis che, a prescindere dalle risultanze della CTU medico-legale (che escludeva la sussistenza del danno alla salute), con riferimento ai contrasti ed alle discussioni nell’ambiente di lavoro, la mera deduzione di situazioni di conflitto sul luogo di lavoro non appare di per sé idonea ad individuare gli elementi minimi del mobbing giuridicamente rilevante.
Il mobbing, infatti, deve essere inteso come complesso di comportamenti vessatori posti in essere nei confronti del dipendente e, come tale, non è ravvisabile nel caso in cui si lamenti l’assegnazione di una stanza di modeste dimensioni, le presunte rivalità tra colleghi, la mancata assegnazione di collaboratori e l’attribuzione di fondi insufficienti, trattandosi di deduzioni formulate in via generica, senza riscontri oggettivi probatori, da cui sia desumibile l’esistenza di un chiaro intento vessatorio (così, Tar Trieste, sez. I, 26 maggio 2011, n. 260).
La ricorrenza di una condotta “mobbizzante” va esclusa anche quando la valutazione complessiva delle circostanze addotte e accertate nella loro materialità, seppur idonea a palesare elementi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (in tal senso cfr., Tar Calabria, sez. I, n. 553/ 2008; Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2010, n.1991; Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 2010, n. 2272).
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificabile come danno da emarginazione lavorativa o mobbing, è infatti rilevante, in primis, una strategia persecutoria, che non si sostanzia in singoli atti, da ricondurre nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell’ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, non caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore); con la conseguenza che la ricorrenza di condotte mobbizzanti deve essere esclusa allorquando la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
Nel caso in esame, il Tribunale, appurata la situazione di crisi dell’azienda e la sussistenza del giustificato motivo oggettivo vista, poi, l’insussistenza dei lamentati comportamenti mobbizzanti, ha escluso altresì il carattere discriminatorio del recesso.