L’intento fraudolento del dipendente pubblico che fa timbrare il cartellino ad un proprio collega in sua vece può essere valutato dall’Amministrazione anche a prescindere da una sentenza penale di condanna per tali fatti.

 

Nota a Trib. Milano, ord.,  30 agosto 2017, n. 21909

 

Gennaro Ilias Vigliotti

Non esiste alcun rapporto di pregiudizialità tra procedimento disciplinare pubblico e procedimento penale, non sussistendo la necessità giuridica che un fatto, la cui illiceità sia rilevante ai fini del licenziamento del dipendente, sia accertato da un giudice in sede penale. In tale quadro, dinanzi a tali comportamenti, l’Amministrazione (ed eventualmente il Giudice del lavoro in caso di controversia tra le parti) può procedere alla valutazione di tutti gli elementi utili per l’individuazione di un intento fraudolento e di raggiro, integrante una giusta causa di recesso.

Questi principi costituiscono acquisizione consolidata presso la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale si è trovata più volte a ribadire che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, di modo che, non è necessario che l’illiceità di un fatto, per essere opportunamente valutata, sia stata oggetto di provvedimento di condanna in sede penale (Cass. n. 5284/2017; Cass. n. 6478/2005; Cass. n. 12027/2003).
In caso di falsa attestazione della presenza di un dipendente pubblico, dunque, non è essenziale che un giudice penale lo abbia condannato per tale falso, ben potendo l’Amministrazione datrice di lavoro valutare autonomamente l’illeceità della sua condotta ai fini disciplinari.
In questo senso ha deciso, di recente, anche il Tribunale di Milano, giudicando del licenziamento di un lavoratore del Comune di Corbetta, il quale era uscito prima dell’orario di lavoro contrattuale, accordandosi con un collega perché fosse quest’ultimo a timbrare il cartellino in sua vece. L’Amministrazione, svelato l’inadempimento contrattuale, aveva avviato la procedura disciplinare nei confronti del lavoratore e, all’esito della stessa, aveva intimato il licenziamento per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., seguendo l’iter descritto dal testo dell’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dal D.Lgs. n. 116/2016 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 75/2017, su cui si v. G.I. Vigliotti, Licenziamenti pubblici: nelle nuove norme c’è la reintegra “piena”, in questo sito).
Il dipendente aveva fatto ricorso al Giudice del Lavoro, adducendo una serie di giustificazioni per il suo comportamento (tra cui, l’urgenza di provvedere all’accudimento del proprio figlio affetto da handicap) e negando qualsiasi accordo con il collega, che avrebbe attestato spontaneamente la presenza al suo posto.
Inoltre, il lavoratore aveva lamentato la mancata comunicazione del nuovo orario di lavoro degli uffici cui era addetto (mutato da poche settimane), circostanza che non gli aveva consentito di adeguarsi alle prescrizioni dell’Amministrazione e lo aveva indotto a non rendersi conto della violazione disciplinare.
All’esito dell’acquisizione istruttoria, però, il Giudice del Tribunale di Milano aveva appurato che non sussisteva alcuna ragione d’urgenza nell’allontanamento del dipendente (non era stata provata la necessità di raggiungere il figlio invalido) e che, ad ogni modo, se davvero fosse sussistita tale urgenza, il ricorrente avrebbe potuto richiedere un permesso ai sensi della L. n. 104/1992, applicabile al suo caso. Inoltre, la testimonianza del collega che aveva timbrato il cartellino in sua vece aveva disvelato l’esistenza di un vero e proprio accordo tra i due, volto a coprire le reciproche assenze tramite uno scambio di favori. Infine, l’Amministrazione aveva prodotto la comunicazione scritta a tutti i dipendenti circa il cambio di orario introdotto, superando anche la terza recriminazione in fatto proposta dal lavoratore.
Con riferimento alle doglianze mosse in diritto, il Tribunale aveva disatteso la prospettazione proposta dal ricorrente, secondo cui, ai fini dell’accertamento di una responsabilità disciplinare nel settore pubblico, è necessaria e pregiudiziale la valutazione dell’illiceità del comportamento da parte del giudice penale, cosa che nella fattispecie non era avvenuta, avendo l’Amministrazione proceduto al licenziamento direttamente all’esito della procedura disciplinare esperita. Il Tribunale, dunque, si è allineato alla giurisprudenza di legittimità maggioritaria, secondo cui non sussiste l’esigenza di valutare penalmente l’illiceità di un fatto commesso dal dipendente pubblico per poter avviare e concludere con la sanzione espulsiva la procedura disciplinare aperta.

Falsa attestazione della presenza: non è necessario attendere la sentenza penale per poter licenziare
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