Nelle riduzioni di personale il requisito dell’età pensionabile non costituisce disparità di trattamento.
Nota a Cass. 12 dicembre 2017, n. 29750
Giuseppe Rossini
Nel caso di licenziamento collettivo, il criterio di scelta dei lavoratori in esubero, basato sul possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o di vecchiaia, non rappresenta un mezzo indiretto di discriminazione fondato sull’età. Al contrario, esso deve ritenersi “del tutto giustificato ai sensi delle previsioni della Direttiva 2000/78/CE e delle disposizioni (artt. 3 e 4) del D.Lgs. n. 216/2003, con cui la stessa è stata recepita nell’ordinamento nazionale”.
E’ questa la rilevante precisazione della Corte di Cassazione (12 dicembre 2017, n. 29750), la quale rileva che, ai sensi della Direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri della UE hanno la possibilità di prevedere, nell’ambito del diritto nazionale, forme di disparità di trattamento fondate sull’età quando siano “oggettivamente e ragionevolmente” giustificate da una finalità legittima, quale la politica del lavoro e del relativo mercato o della formazione professionale, purché i mezzi per il raggiungimento di tale scopo siano necessari e appropriati (art. 6, così come interpretato dalla Corte di giustizia – Sezione III, 5 marzo 2009, C-388/07).
In applicazione di tale Direttiva, il D.M. 28 aprile 2000, n. 158, ha istituito un apposito Fondo di solidarietà per la riconversione e riqualificazione professionale, per il sostegno dell’occupazione e del reddito del personale del settore del credito (art. 1). Il Fondo ha lo scopo di “attuare interventi diretti a favorire il mutamento e il rinnovamento delle professionalità e la realizzazione di politiche attive di sostegno del reddito e dell’occupazione, nell’ambito e in connessione con processi di ristrutturazione o di situazioni di crisi, di riorganizzazione aziendale o di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” (art. 2).
Più specificamente, tale Decreto prevede che l’individuazione dei lavoratori in esubero debba riguardare anzitutto “il personale che, alla data stabilita per la risoluzione del rapporto di lavoro, sia in possesso dei requisiti di legge previsti per avere diritto alla pensione anticipata o di vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio” (art. 8). Per tale via, la riduzione del personale ed il contenimento del costo del lavoro sono perseguiti mediante il ricorso a forme concrete e adeguate di sostegno del reddito.
La Corte richiama la consolidata la giurisprudenza di legittimità, che già aveva sottolineato come il criterio del prepensionamento, applicato – congiuntamente con il criterio produttivo – in osservanza degli accordi sindacali, rispondesse “a indubbi criteri di razionalità tenuto conto delle finalità perseguite mediante l’iter procedurale regolato dagli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991. Né per andare in contrario avviso e sostenerne la illegittimità vale il riferimento a possibili effetti di discriminazione tra i lavoratori, essendo ogni forma di riserva sul punto destinata a venir meno in considerazione sia del fatto che non si riscontra nel caso di specie alcun elemento suscettibile di far paventare l’esistenza di un intento discriminatorio da parte della società, sia in considerazione dell’innegabile equità di un sistema di riduzione del personale incentrato sull’esigenza di una più efficiente riorganizzazione della impresa (che sta alla base del criterio tecnico-produttivo) non disgiunta da quella di addossare la ricaduta degli effetti negativi di detta riduzione sui soggetti che, per essere prossimi a pensione, hanno la capacità economica di meglio ammortizzare detti effetti” (v. Cass. n. 20455/2006; v. anche Cass. n. 5965/2013, n. 11661/2012 e n. 9866/2007).