Il lavoratore che lamenti l’imposizione di ordini professionalmente dequalificanti e la privazione di funzioni istituzionali non può rifiutare la prestazione, salvo il caso  di inadempimento totale del datore di lavoro, né può invocare la nullità del licenziamento per causa di matrimonio, qualora risulti destinatario di un provvedimento disciplinare già avviato anteriormente alla data della richiesta di pubblicazioni del matrimonio stesso.

Nota a Cass. 19 aprile 2018, n. 9736

Maria Novella Bettini

Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato il concetto di insubordinazione non è limitato al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma “implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”.

Questa l’importante precisazione della Corte di Cassazione (19 aprile 2018, n. 9736; v. anche Cass. n. 7795/2017), la quale ha ribadito il principio (applicabile anche nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, v. art. 2, co. 2, D.LGS. n. 165/2001), in base la quale  il lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non è autorizzato a “rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale” (cfr. Cass. n. 18866/2016 e n. 831/2016). Resta, poi, salvo il diritto per i lavoratori del pubblico impiego, al pari di quanto avviene per quelli del settore privato, di rivolgersi al giudice del lavoro, anche in via d’urgenza, affinché venga rilevato il carattere illecito delle direttive datoriali e disposta la rimozione dei loro effetti. Altrimenti, i dipendenti pubblici sono tenuti a conformarsi alle disposizioni di servizio, pur se illegittime, senza possibilità di invocare il principio della eccezione di inadempimento, tranne che nelle ipotesi in cui la richiesta del datore di lavoro riguardi fatti costituenti reato, ovvero azioni contrarie ai doveri di diligenza e fedeltà nei confronti della pubblica amministrazione.

La Corte analizza anche l’art. 1, L. n. 7/1963 (norma oggi abrogata dall’art. 57, D.LGS. 11 aprile 2006, n. 198), secondo cui il licenziamento attuato a causa di matrimonio è nullo e “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio” (art.35).

Ad avviso del Collegio, la disposizione “allude ad una decisione della parte datoriale che sia maturata ed adottata nell’arco temporale indicato per legge (v. Cass. n. 27055/2013); presupposto che non è ravvisabile quando si verta in un’ipotesi di procedimento disciplinare già avviato anteriormente alla data della richiesta di pubblicazioni di matrimonio; in questa ipotesi, infatti, non può presumersi la riconducibilità della volontà datoriale alla “causa di matrimonio”, “non essendo i relativi presupposti neppure venuti ad esistenza alla data in cui è stata esercitata I’ azione disciplinare. Non è ravvisabile, in radice, alcun nesso logico né giuridico tra la volontà datoriale di avviare e dare corso ad un procedimento disciplinare e la richiesta di pubblicazioni di matrimonio che intervenga nel corso di tale procedimento”.

Nella fattispecie, la dipendente (Comandante della Polizia Municipale) non aveva osservato gli obblighi nascenti dagli ordini di servizio impartiti dal Responsabile del Servizio medesimo; anzi, aveva emesso specifici ordini, anche all’indirizzo degli altri componenti della Polizia municipale, contrastanti con quelli del Responsabile, cagionando grave confusione nei destinatari degli ordini stessi. Inoltre, la lavoratrice non aveva svolto, secondo quanto disposto, la programmazione settimanale, il servizio esterno di controllo del traffico; era stata ingiustificatamente assente dal servizio senza svolgere il turno programmato ed aveva ripreso servizio sulla base di un orario arbitrario.

L’art. 35, D.LGS. 11 aprile 2006, n. 198 (come mod. dall’art. 27, co. 1, D.LGS. 14 settembre 2015, n. 151), recita:

“1. Le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte.

2. Del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio.

3. Salvo quanto previsto dal comma 5, si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio.

4. Sono nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo di cui al comma 3, salvo che siano dalla medesima confermate entro un mese alla Direzione della città metropolitana e dell’ente di area vasta di cui alla legge 7 aprile 2014, n. 56 del lavoro.

5. Al datore di lavoro è data facoltà di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al comma 3, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi:

a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;

b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;

c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per

la scadenza del termine.

6. Con il provvedimento che dichiara la nullità dei licenziamenti di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 è disposta la corresponsione, a favore della lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto sino al giorno della riammissione in servizio.

7. La lavoratrice che, invitata a riassumere servizio, dichiari di recedere dal contratto, ha diritto al trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa, ferma restando la corresponsione della retribuzione fino alla data del recesso.

8. A tale scopo il recesso deve essere esercitato entro il termine di dieci giorni dal ricevimento dell’invito.

9. Le disposizioni precedenti si applicano sia alle lavoratrici dipendenti da imprese private di qualsiasi genere, escluse quelle addette ai servizi familiari e domestici, sia a quelle dipendenti da enti pubblici, salve le clausole di miglior favore previste per le lavoratrici nei contratti collettivi ed individuali di lavoro e nelle disposizioni legislative e regolamentari”.

Insubordinazione e licenziamento “a causa di matrimonio”
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