Il licenziamento è illegittimo se l’azienda non dimostra un possibile reimpiego del dipendente licenziato anche in mansioni inferiori.

Nota a Cass. 11 novembre 2019, n. 29100

Francesco Belmonte

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, causato dalla soppressione del posto di lavoro cui era addetto il dipendente, “il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale”.

A stabilirlo è la Cassazione (11 novembre 2019, n. 29100), la quale, in linea con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (v., tra le tante, Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509 e Cass. 13 agosto 2008, n. 21579), ribadisce l’ambito applicativo dell’onere di “ripescaggio” gravante sul datore di lavoro.

Nella fattispecie, invero, come correttamente rilevato dalla Corte di Appello di Ancona (30 novembre 2016, n. 260), i giudici di merito, seppur abbiano ritenuto effettiva la crisi aziendale giustificante la soppressione della posizione lavorativa, essi hanno reputato il recesso datoriale illegittimo in quanto l’impresa si era limitata a dedurre e provare l’inesistenza in azienda di  mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte dal lavoratore, omettendo di provare “l’offerta (n.d.r. al lavoratore) di mansioni anche inferiori, con il conseguente mancato assolvimento dell’obbligo datoriale di repêchage, configurabile pure per mansioni di tale natura, se rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibili con l’assetto aziendale.”

Per la Cassazione, “l’art. 2103 c.c. si deve, infatti, interpretare alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, quali il D.LGS. n. 151/2001, art. 7, co. 5 (n.d.r. adibizione della lavoratrice gestante a mansioni inferiori), la L. n. 68/1999, art. 1, co. 7 (n.d.r. “conservazione del posto di lavoro per quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità”), il D.LGS. n. 223/1991, art. 4, co. 11 (n.d.r. assegnazione a mansioni inferiori dei dipendenti ritenuti eccedenti), anche come da ultimo riformulato dal D.LGS. n. 81/2015, art. 3, co. 2 (n.d.r. in base al quale: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”): senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento … essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (sul punto, v. Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

L’obbligo di repêchage nel caso di soppressione del posto di lavoro
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