Il tardivo adeguamento dell’Italia al disposto delle direttive europee sulla protezione dei lavoratori coinvolti da procedure di riduzione del personale espone lo Stato alla condanna al risarcimento del danno effettivamente patito dai dipendenti con qualifica dirigenziale.

Nota a Trib. Roma, Sez. II Civ. 2 aprile 2020, n. 5717

Gennaro Ilias Vigliotti

Il principio di diritto.

La disciplina italiana sui licenziamenti collettivi, fino all’avvento della L. n. 161/2014, non contemplava alcun coinvolgimento dei lavoratori con qualifica dirigenziale nella procedura (e nelle conseguenti tutele) previste dalla L. n. 223/1991. Tale provvedimento legislativo aveva attuato le regole europee contenute, da ultimo, nella Direttiva 98/59/CE, ma tale attuazione era stata giudicata non fedele dalla Corte di Giustizia UE che con sentenza 13 febbraio 2014 (relativa alla causa numero C-596/12) aveva condannato l’Italia ad estendere il campo di applicazione della legislazione sui licenziamenti collettivi anche ai dirigenti, modifica introdotta con la citata legge del 2014.

Al dirigente che, prima di tale adeguamento normativo, sia stato estromesso da ogni tutela in ragione del tardivo intervento del legislatore interno, spetta dunque il risarcimento per il danno effettivamente patito. Tale danno va provato in giudizio e consiste nella perdita dei diritti derivanti dalla procedura di licenziamento collettivo, quali, ad esempio, la conservazione, anche temporanea, del posto di lavoro a seguito di continuazione parziale dell’attività aziendale o l’accesso agli ammortizzatori sociali eventualmente previsti in sede di consultazione e di accordo sindacale a fronte della cessazione dell’attività e di tutti i rapporti di lavoro.

La controversia conosciuta dal Tribunale di Roma.

Il principio appena esposto è stato di recente affermato da una sentenza della Seconda Sezione Civile del Tribunale di Roma, la n. 5717 del 2 aprile 2020. Con atto di citazione, alcuni dirigenti licenziati nel 2010 da un noto istituto bancario hanno convenuto in giudizio dinanzi all’Autorità giudiziaria la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo di accertarne e dichiararne la responsabilità per mancata attuazione della direttiva 75/129/CEE, come modificata dalla direttiva 92/56/CEE e dalla successiva 98/59/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.

A sostegno della propria domanda, i lavoratori hanno dedotto di essere stati assunti nel biennio 2007-2009 con il ruolo di dirigenti e di essere stati licenziati nell’ottobre 2010, insieme con tutto il personale dell’azienda. Per effettuare tali licenziamenti l’istituto bancario aveva avviato la procedura di cui alla L. n. 223/1991 solo in relazione al personale non dirigenziale, in quanto la predetta legge, nella versione all’epoca vigente, aveva escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura, in violazione della direttiva 98/59/CE.

Solo a seguito della sentenza resa nella causa C-596/2014 del 13 febbraio 2014 – con cui la Corte di Giustizia UE ha dichiarato inadempiente lo Stato italiano per non avere correttamente recepito gli obblighi su di esso incombenti – veniva modificato l’art. 24 della legge citata, estendendosi anche ai dirigenti le procedure collettive di riduzione del personale. Gli attori hanno quindi concluso rilevando che, essendo stati illegittimamente esclusi dalla procedura di cui alla L. n. 223/1991, avevano diritto al risarcimento dei danni subiti, da quantificare, in via equitativa, in un’indennità pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita.

Nel costituirsi in giudizio, la Presidenza del Consiglio ha eccepito, in via principale, l’insussistenza del diritto azionato per difetto di un danno effettivamente subìto dagli attori, atteso che gli stessi avevano percepito la somma loro spettante a titolo di indennità di preavviso; in via subordinata, l’esorbitanza dell’ammontare preteso a titolo risarcitorio, da contenere entro l’importo massimo di € 84.000,00 da cui decurtare quanto percepito a titolo di indennità di preavviso.

La disciplina europea dei licenziamenti collettivi e l’esclusione dei dirigenti dalla L. n. 223/1991.

La direttiva 98/59/CE del 20 luglio 1998 ha modificato le precedenti direttive 75/129/CEE e 92/56/CEE, nell’ottica di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi e di rafforzamento della tutela dei lavoratori, ha dettato una procedura suddivisa in due fasi. La prima (di informazione e consultazione), volta a vagliare la possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti ovvero, qualora ciò non sia possibile, diretta ad attenuarne le conseguenze, attraverso specifici strumenti di sostegno del reddito; la seconda fase (di licenziamento), in cui il datore di lavoro notifica il progetto di licenziamento dando atto dei motivi dello stesso, del numero dei lavoratori che dovranno essere licenziati e dei criteri di scelta utilizzati. Il licenziamento dovrà poi avvenire alla luce degli accordi raggiunti, nel corso della procedura, con le rappresentanze sindacali di categoria.

Il legislatore nazionale ha recepito la direttiva in oggetto con la L. 23 luglio 1991 n. 223, escludendo, tuttavia, la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo, sul presupposto che le disposizioni interne riguardanti i dirigenti recassero una disciplina più favorevole della direttiva, fatta salva dall’art. 5 della stessa.

A seguito dell’avvio della procedura d’infrazione, la Commissione europea ha proposto ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 TFUE nei confronti dell’Italia, per essere questa venuta meno, escludendo i dirigenti, agli obblighi imposti dall’art. 1 paragrafi 1 e 2 della direttiva sopra citata.

La Corte di Giustizia UE, con la sentenza del 13 febbraio 2014 (causa C-596/12), ha dichiarato l’inadempimento da parte della Repubblica Italiana degli obblighi su di essa incombenti in forza della direttiva de qua, osservando che l’ambito soggettivo di applicazione riguarda tutti i lavoratori che svolgono la propria prestazione lavorativa alle dipendenze di un diverso soggetto dal quale percepiscono una retribuzione, indipendentemente dalle qualifiche rivestite. Di tal che, anche i dirigenti rientrano nel novero dei soggetti destinatari della normativa europea, la quale risulterebbe parzialmente privata del proprio effetto utile in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori.

Con la L. n. 161/2014, il Legislatore, adeguandosi a quanto deciso dalla CGUE, ha quindi modificato la L. 223/1991, estendendo la procedura di riduzione del personale anche ai dirigenti (art. 24 co. 1-quinquies).

I requisiti per l’invocazione del danno da violazione del diritto europeo.

Per valutare la fondatezza delle domande attoree, il Tribunale ha ripercorso i criteri fondamentali che consentono l’individuazione del danno da violazione del diritto europeo. L’azione risarcitoria per inadempimento delle direttive europee può essere esercitata in presenza delle seguenti condizioni: a) la norma giuridica violata sia preordinata ad attribuire diritti a favore dei singoli, il cui contenuto possa essere identificato sulla base della direttiva; b) la violazione sia sufficientemente grave e manifesta; c) esista un nesso di causalità fra la violazione dell’obbligo imposto allo Stato e il danno lamentato dal singolo (cfr. Corte di Giustizia 19 novembre 1991, nelle cause riunite C-6/90 e C- 9/90).

Quanto al primo requisito, secondo il Tribunale la nozione di lavoratore di cui all’art. 1 paragrafi 1 e 2 della direttiva 98/59 ha una portata comunitaria che ricomprende tutte quelle persone che forniscano, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest’ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione. Ne consegue che anche i dirigenti devono essere ricompresi in tale nozione (come ribadito dalla citata sentenza C-596/2012 della Corte di Giustizia) ed hanno perciò il diritto, violato dalla L. n. 223/91 ante riforma, di partecipare alla procedura prevista dalla legge nazionale in tema di riduzioni e licenziamenti collettivi, il cui contenuto è stato individuato dalla direttiva nei termini sopra esposti.

In ordine al secondo punto, il giudice ha affermato che la violazione appare grave e manifesta, in quanto la L. n. 223/91, prima delle modifiche introdotte dall’art. 16 dalla L. n. 161/2014, ha recepito la disciplina comunitaria in materia di licenziamenti collettivi, escludendo tuttavia i dirigenti dall’applicazione degli artt. 4 e 5 della L. n. 223/91, in palese violazione degli artt. 1 e 2 della direttiva. Rimane dunque da valutare il punto 3 ovvero l’esistenza e l’ammontare del danno provocato da tale violazione.

Quanto al danno, poi, i lavoratori avevano chiesto che fosse quantificato con riferimento al criterio indicato dall’art. 24, co. 1- quinques L. n.223/91, il quale afferma che “quando risulta accertata la violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore è tenuto al pagamento in favore del dirigente di un’indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro“. Secondo le allegazioni degli attori, il danno richiesto, derivante dalla tardiva attuazione della direttiva sarebbe presunto, ovvero un danno “sanzione” o c.d. “comunitario”, che non necessiterebbe di prova ulteriore rispetto a quella della non conformità della legge italiana rispetto all’ordinamento comunitario (accertato nel caso in esame dalla sentenza della Corte di Giustizia del 13 febbraio 2014) e che deve esser risarcito solo in ragione di tale violazione.

Nello specifico, ad avviso dei dirigenti, il risarcimento deve essere posto a carico dello Stato legislatore che non ha tempestivamente adempiuto agli obblighi comunitari, precludendo così ai dirigenti le specifiche tutele.

L’individuazione e la quantificazione del danno da tardiva attuazione della direttiva.

La tesi di parte ricorrente in merito all’individuazione ed alla quantificazione del danno non è stata condivisa dal Tribunale.

Secondo il giudice, il danno-evento derivante dalla non corretta trasposizione della direttiva consiste non già nella mancata partecipazione formale alla procedura, che è un istituto strumentale alla protezione effettiva del lavoratore coinvolto, bensì nella perdita delle forme di tutela predisposte in seno alla stessa. Di conseguenza, il dirigente estromesso che faccia valere la pretesa risarcitoria per siffatto inadempimento è tenuto a dimostrare, quale fatto costitutivo del danno-evento, non la semplice mancata partecipazione alla procedura, bensì l’omesso godimento dei diritti derivanti da quest’ultima, quali la possibilità di non essere licenziati, quella di essere licenziati in un momento successivo, ovvero quella di accedere agli strumenti sociali di ausilio del reddito, con tutte le conseguenze economiche da ciò derivanti.

Mentre per le prime due ipotesi (possibilità di non essere licenziati o di essere licenziati dopo) il criterio di quantificazione di cui all’art. 24, co. 1, L. n. 223/1991 appare ragionevole, poiché l’indennità ivi prevista mira proprio ad indennizzare le conseguenze pregiudizievoli patite dal lavoratore che non doveva essere licenziato, per il terzo caso tale criterio non appare idoneo a realizzare la protezione funzionalmente necessaria a sollevare il lavoratore dalle conseguenze concrete della lesione patita. A ben guardare, infatti, l’unico parametro utilizzabile, in questo specifico caso, è il contenuto dell’accordo sindacale nella parte in cui consente (e regola) l’accesso al trattamento costituito dagli ammortizzatori sociali.

Le conclusioni del Tribunale.

Applicando i princìpi sopra riportati, il Giudice ha affermato che il danno patito concretamente dai dirigenti nel caso di specie non poteva rientrare nelle prime due ipotesi, dato che, come rilevato in giudizio, quest’ultimi non avrebbero potuto in alcun caso conservare, anche temporaneamente, il proprio posto di lavoro, essendo stato licenziato tutto il personale dell’azienda. L’unica perdita subita dai ricorrenti, dunque, era quella riferita agli ammortizzatori sociali non percepiti (il Fondo di solidarietà). In base a tale strumento assistenziale, secondo l’art. 7, co. 2, D.M. n. 158/2000, l’accesso alle prestazioni è subordinato alla condizione che le procedure sindacali si siano concluse con un accordo sindacale: la mancata attivazione della procedura collettiva nei confronti dei dirigenti ha quindi effettivamente precluso ai ricorrenti l’accesso a tali ammortizzatori. Il danno subìto dagli attori, dunque, è stato quantificato dal Tribunale nell’importo di euro 84.000,00, corrispondente alla misura massima delle erogazioni cui gli stessi avrebbero avuto diritto, somma poi attualizzata tramite rivalutazione monetaria.

Parte convenuta aveva peraltro eccepito che da tale somma si sarebbe dovuto detrarre l’importo già riscosso dalle parti a titolo di indennità di preavviso. Tale eccezione è stata disattesa dal Giudice, non essendo stato né allegato, né provato tale importo e gravando sulla parte convenuta la prova di circostanze modificative o estintive del diritto, rilevanti a titolo di aliunde perceptum. Del resto, a differenza di quanto avvenuto per le altre categorie di lavoratori non escluse dalla procedura sindacale preventiva all’applicazione della L. n. 223/1991, non era intervenuto alcun accordo sindacale a subordinare l’accesso al Fondo alla rinuncia all’indennità di preavviso (dovuta per legge) o alla rideterminazione della stessa.

Risarcimento del danno al dirigente per la mancata tutela nei licenziamenti collettivi
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