Il danno alla salute non è di per sé insito nel demansionamento e va allegato e provato.

Nota a Cass. (ord.) 18 maggio 2021, n. 13536

Fabrizio Girolami

In tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento del datore di lavoro e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13536 del 18 maggio 2021, relativamente a una fattispecie di demansionamento e dequalificazione professionale lamentata da un lavoratore dipendente da una società di telecomunicazioni (Telecom Italia S.p.A.), conseguente a un mutamento delle mansioni di assegnazione.

Nel giudizio di merito, la Corte di Appello di Napoli aveva ritenuto che il lavoratore, al fine della liquidazione del danno professionale, si fosse limitato a fornire la sola prova della dequalificazione, senza tuttavia aver adeguatamente allegato e provato l’esistenza e l’entità del danno professionale (che da quella dequalificazione era causalmente derivato) anche attraverso il ricorso alla prova per presunzioni.

Il lavoratore si era infatti limitato a sottolineare l’entità dell’avvenuto demansionamento, evidenziando che ciò costituiva “di per sé un danno” che va valutato in via equitativa, avendo anche riguardo agli influssi negativi che possono compromettere la capacità psico-fisica o la possibilità di trovare un nuovo impiego presso altre aziende.

Tali allegazioni erano – ad avviso della Corte di merito – del tutto generiche e insufficienti, anche alla luce della circostanza che non risultavano dedotti e dimostrati da parte del lavoratore “né particolari pregiudizi alla salute patiti in seguito al mutamento di mansioni, né danni all’immagine professionale nell’ambiente lavorativo, né ripercussioni in ambito familiare o extralavorativo, né infine determinati e specifici danni economici correlati al mancato avanzamento professionale non tutelabili attraverso la disposta ricostruzione della carriera e la condanna della società al pagamento delle differenze retributive spettanti”.

La Cassazione ha confermato la correttezza della sentenza di appello, rigettando il ricorso del lavoratore. Confermando il proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, il giudice di legittimità ha rilevato quanto segue:

  • il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale “non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato”;
  • occorre, infatti, distinguere il momento della “violazione degli obblighi contrattuali” da quello relativo alla “produzione del danno da inadempimento”, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno “non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere”;
  • in base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario “individuare, quindi, un effetto della violazione incidente su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso”;
  • il danno non è, dunque, di per sé insito nel demansionamento (c.d. “danno in re ipsa”); il lavoratore dovrà sempre fornire la prova del danno stesso, rilevando altresì il nesso eziologico causale tra l’inadempimento datoriale e il danno medesimo, specificando, anche ai fini della determinazione dell’importo del risarcimento, quale fra le variegate tipologie di danno ritenga di avere subito (danno professionale, danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno esistenziale);
  • con particolare riferimento ai pregiudizi alla salute patiti in seguito al mutamento di mansioni (c.d. danno biologico), il danno non può dirsi presunto, perché occorre anche la prova dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che “la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato”;
  • pertanto, la domanda di risarcimento del danno da demansionamento o da dequalificazione professionale non può essere limitata alla “prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera del lavoratore”, ma deve includere “anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta”;
  • ne deriva, conclusivamente, che grava sul lavoratore l’onere di “provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro”.
Danni da demansionamento e distribuzione dell’onere della prova
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