Non si può ravvisare un intento persecutorio laddove il datore di lavoro disponga un trasferimento al solo fine di ripristinare all’interno del luogo di lavoro un clima di proficua tranquillità.

Nota a Cass. 12 maggio 2021, n. 12632

Fulvia Rossi

Il trasferimento di un lavoratore al solo scopo di ripristinare un clima di serenità aziendale non costituisce mobbing.

Questo, il principio espresso dalla Corte di Cassazione (12 maggio 2021, n. 12632, conf. ad App. Ancona n. 309/2018) in una fattispecie in cui era stato trasferito il comandante dei vigili urbani e dirigente del servizio statistica del Comune di Ancona, accusato di aver “sospeso” una serie di multe elevate dagli ausiliari del traffico.

Secondo la Corte, malgrado vi fosse “un contesto di difficoltà nei rapporti interpersonali che acuivano tensioni e problematiche tanto da costituire certamente una condizione di incompatibilità ambientale”, non si potevano riscontrare gli estremi del mobbing. Come noto, infatti, “l’elemento qualificante della condotta mobbizzante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto”.

Nel caso di specie, il ricorrente non aveva fornito la prova né di un demansionamento, né della presenza di elementi costitutivi del mobbing con particolare riguardo all’intento persecutorio.

Trasferimento e mobbing
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