L’amicizia fra i contraenti non esclude la presenza degli indici della subordinazione

Nota a Cass. 24 agosto 2021, n. 23324

Maria Novella Bettini

La presenza del requisito della eterodirezione anche a fronte della presenza di un pregresso rapporto di amicizia tra le parti non esclude l’esistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata.

Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione (24 agosto 2021, n. 23324, conf. ad App. Roma 29 aprile 2016) con riguardo all’attività prestata dalla ricorrente che aveva svolto mansioni di segretaria presso uno studio legale.

La Corte, premettendo che l’elemento fondamentale della subordinazione è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro (v. Cass. n. 7024/2015) precisa le caratteristiche principali ed essenziali richieste per differenziare il lavoro autonomo da quello subordinato e cioè:

a) “la disponibilità” del prestatore ad assoggettarsi agli ordini impartiti dal datore di lavoro circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa;

b) l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative; mentre, nel lavoro autonomo, l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (v., fra tante, Cass. nn. 4770/2003 e 5645/2009). Nell’accertamento di tale requisito, il giudice deve analizzare la fattispecie concreta dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr. anche Cass. nn. 1717/2009 e 1153/2013);

Vi sono poi altri elementi, afferma la Corte, che rilevano nella diversa qualificazione del lavoro e che, pur avendo soltanto valore indicativo e non determinante in quanto rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione del rapporto stesso (v. Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984). E cioè:

1) la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali;

2) l’assenza di rischio economico;

3) il luogo della prestazione;

4) la forma della retribuzione (ossia retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa – v. Cass. n. 7171/20039);

5) l’orario di lavoro fisso e continuativo;

6) la volontà delle parti (c.d. nomen iuris), che deve “tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale”. Sicché, laddove i contraenti abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo” (v. Cass. nn.4220/1991 e 12926/1999). Il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è dunque vincolante (stante la posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro) ed è “comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione” (Cass. n. 812/1993). Nell’accertamento di tali modalità il giudice potrà anche eventualmente accertare “una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata” con la conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente…” (v. Cass. nn. 4770/2003 e 5960/1999).

Lavoro autonomo e subordinato: differenze
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