Non basta la giusta causa tipizzata dal c.c.n.l. per il licenziamento della lavoratrice madre.

Nota a Trib. Brescia 6 settembre 2021

Fabrizio Girolami

È nullo il licenziamento intimato a una lavoratrice madre durante il “periodo protetto” previsto dalla normativa vigente (art. 54, co.1, D.Lgs. n. 151/2001 e s.m.i.), in ragione di ripetute assenze ingiustificate che, in base al c.c.n.l. di settore, avrebbero consentito l’irrogazione del licenziamento per giusta causa. La “colpa grave” – che costituisce l’eccezione al divieto legale di licenziamento – non può ritenersi integrata da una situazione prevista dal c.c.n.l. quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo, invece, richiesta, ai fini della legittimità del provvedimento di estromissione, una fattispecie autonoma – e connotata da un maggiore disvalore – rispetto ai casi di giusta causa delineati dall’art. 2119 c.c. o enumerati dal medesimo c.c.n.l.

Lo ha stabilito il Tribunale di Brescia, sezione lavoro, con sentenza 6 settembre 2021, in relazione alla vicenda di una lavoratrice con qualifica di operaia stiratrice, inquadrata al II livello del c.c.n.l. artigiano tessile, la quale, a seguito della nascita della propria figlia (26.11.2019), aveva dapprima fruito dei congedi per maternità (obbligatorio e facoltativo) ed era stata successivamente collocata in ferie dal datore di lavoro al fine di esaurire i periodi di riposo in precedenza maturati e non goduti. Successivamente, in data 2.11.2020, il datore di lavoro aveva irrogato alla lavoratrice un licenziamento disciplinare per “giusta causa” (ai sensi dell’art. 42 del c.c.n.l. di settore) per assenza ingiustificata per oltre 5 giorni consecutivi.

La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, ritenendo che il recesso datoriale fosse nullo, discriminatorio o comunque illegittimo in quanto intimato entro l’anno di nascita del bambino e, pertanto, aveva chiesto la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, nonché al versamento dei relativi contributi previdenziali e assistenziali.

Il giudice bresciano ha accolto l’impugnazione della lavoratrice, sulla base delle seguenti considerazioni:

  • l’articolo 54 (“Divieto di licenziamento”) del D.Lgs 26 marzo 2001, n. 151, e s.m.i. (recante “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”), al co.1, stabilisce che “le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro (…), nonché fino al compimento di un anno di età del bambino”;
  • la medesima disposizione stabilisce, al co. 3, che il divieto legale di licenziamento non si applica, tra l’altro, nel caso di “colpa grave” da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. 26 gennaio 2017, n. 2004, in q. sito annotata da D. CASAMASSA; Cass. 29 settembre 2011, n. 19912), la “colpa grave” della lavoratrice – che costituisce un’eccezione alla regola generale del divieto di licenziamento della lavoratrice madre – non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario “verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d’inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto”;
  • analogamente, la giurisprudenza di merito (cfr., tra le altre, Trib. Roma 19 marzo 2019) ha evidenziato che il “concetto di colpa grave costituisce ipotesi più specifica e appunto più grave di quella prevista dall’art. 2119 codice civile”, per cui “non è sufficiente l’esistenza di una delle fattispecie che in linea generale o a norma del c.c.n.l. consentono il licenziamento, richiedendosi invece una riprorevolezza intrinseca o colpa morale tale da superare la considerazione in cui devono essere tenute le condizioni psico-fisiche della donna gestante [ovvero puerpera] la quale si trova a vivere una rivoluzione dei propri ritmi di vita con ineliminabili effetti nell’immediata vita di relazione, compresa l’attività lavorativa”;
  • non avendo, nel caso di specie, il datore di lavoro fornito la prova della effettiva sussistenza di una “colpa grave” quale ipotesi derogatoria al divieto di licenziamento stabilito in favore delle lavoratrici madri, nell’accezione precisata dalle sopra citate pronunce giurisprudenziali, il licenziamento intimato nei confronti della lavoratrice è nullo.
“Colpa grave” e eccezioni al divieto di licenziamento della lavoratrice madre
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