Perché la reperibilità rientri nell’orario di lavoro è necessario che il lavoratore possa gestire il proprio tempo in modo libero e dedicarsi ai propri interessi.

Nota a Cass. 28 ottobre 2021, n. 30587

Flavia Durval

La mera disponibilità del lavoratore a recarsi al lavoro qualora il datore lo richieda non è riconducibile all’orario di lavoro. Si tratta, infatti, di “una prestazione strumentale e accessoria, qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro, consistente nell’obbligo del lavoratore di porsi in condizioni di essere prontamente rintracciato, in determinati archi temporali, in vista di un’eventuale successiva prestazione, cui corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di riconoscere uno specifico compenso aggiuntivo alla normale retribuzione” (Cass. n. 14288/2011; Cass. n. 18654/2017).

Come noto, infatti, il D.LGS. n. 66/2003, attuativo delle Direttive nn. 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, all’art. 1 stabilisce che per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

Per valutare se il periodo di reperibilità rientri o meno nell’orario di lavoro, risulta pertanto decisivo il criterio attinente alla possibilità per i lavoratori di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi. (v. CGUE 10 settembre 2015, punto 37) ed è quindi determinante l’accertamento di fatto del giudice di merito, che deve in concreto verificare se il servizio dì reperibilità speciale, pur vincolato nel luogo di espletamento, lascia libero il lavoratore dì riposare e dedicarsi ad attività di suo gradimento anche in compagnia.

È questo il caso esaminato dalla Corte di Cassazione 28 ottobre 2021, n. 30587 (conf. a Trib. L’Aquila) in cui il lavoratore, impiegato in attività di vigilanza nelle dighe, come accertato dalla Corte di merito: a) svolgeva il proprio servizio svolto a turni con  permanenza dell’addetto alla vigilanza nella casa di guardia, situata a ridosso di una diga, senza che fosse richiesto di regola alcun altro incombente se non quello di non allontanarsene per la durata del turno; b) in caso di eventuali interventi specifici sopravvenuti nel turno veniva pagato come lavoro straordinario e la disposizione collettiva (nello specifico, art.10 del c.c.n.l. 5 marzo 2010) aveva previsto, per ogni giornata di effettivo espletamento del servizio di reperibilità, un’indennità in cifra fissa, demandandone la regolazione ad accordi di secondo livello, oltre che mezza giornata di permesso retribuito; c) operava con un turno di reperibilità speciale compatibile con eventuali svaghi e con intrattenimenti anche familiari, atteso che l’unica limitazione imposta era quella di permanere nell’abitazione a disposizione del lavoratore nei pressi della diga e di intervenire in caso di necessità; era, in sintesi, adibito ad un servizio sostanzialmente di attesa che si attivava solo in seguito ad allarme.

Il dipendente aveva dunque usufruito di una reperibilità speciale che si differenziava dalla reperibilità ordinaria in quanto svolta nella “casa di guardia” situata nelle vicinanze della diga e “senza che ne risultasse precluso il riposo o la coltivazione di interessi e rapporti seppur contenuti logisticamente nell’abitazione”.

Tale reperibilità realizzava una prestazione strumentale ed accessoria che, seppur ontologicamente diversa dalla prestazione dell’attività lavorativa, limitava ma non escludeva il riposo. Non vi erano perciò i presupposti per configurare un orario di lavoro.

Di conseguenza, secondo i giudici, la particolare reperibilità richiesta rientrava – in ragione della modalità della prestazione, delle sue caratteristiche, delle finalità e per come risultava regolamentata in sede collettiva – tra le occupazioni che richiedevano un lavoro discontinuo o di semplice attesa, le quali, a norma dell’art. 16, lett. d) del D.LGS. n. 66/2003, non potevano essere comprese nell’orario di lavoro.

In tale prospettiva, la giurisprudenza ha esaminato il servizio di guardia medica svolto sul luogo di lavoro, ritenendo che in questo caso sono presenti gli elementi caratteristici della nozione di «orario di lavoro», poiché nell’obbligo di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la propria opera si configura “esercizio delle funzioni” e ciò anche quando sia messa a disposizione del medico sul luogo medesimo una stanza con un letto per riposare nei periodi di inattività (CGUE 9 settembre 2003, C151/02). Egualmente, si è ritenuto che rientrasse nella nozione di orario di lavoro ai sensi dell’art. 2, punto 1, Direttiva n. 2003/88/CE il tempo in cui il lavoratore (una guardia forestale con alloggio di servizio) era tenuto ad essere a disposizione del datore di lavoro poiché, al di fuori dell’orario di lavoro previsto per legge, gli veniva attribuita senza limiti di tempo la responsabilità della particella boschiva, anche per i danni in qualunque momento avvenuti con conseguente obbligo di sorveglianza (CGUE ord. 4 marzo 2011, C-258/10). Mentre, nell’ipotesi in cui il servizio di guardia medica non si svolga secondo un regime di presenza fisica sul luogo di lavoro, è stato considerato «orario di lavoro» solo il tempo relativo alla prestazione effettiva del servizio poiché il dipendente, pur dovendo essere raggiungibile e dunque a disposizione del datore di lavoro, può gestire il suo tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi (CGUE 5 ottobre 2004, nelle cause riunite da C-397/01 a C-403/01; 1 dicembre 2005, C-14/04 ; 11 gennaio 2007, C-437/05).

Reperibilità e orario di lavoro (Cass. n. 30587/2021)
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