Il licenziamento del lavoratore che falsamente denuncia il datore di lavoro è legittimo

Nota a Cass. (ord.) 6 novembre 2023, n. 30866

Pamela Coti

L’esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro) non può essere di per sé fonte di responsabilità, ma diventa tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso dell’incolpato.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con ord. 6 novembre 2023, n. 30866 in relazione al caso di un lavoratore licenziato per avere denunciato in sede penale il datore di lavoro per appropriazione indebita del TFR, rappresentando in maniera dolosa fatti pacificamente non veri.

Al riguardo la Corte ha sancito che la condotta di strumentalizzazione della denuncia, finalizzata a danneggiare il datore di lavoro e non a rimuovere una situazione di illegalità, integra un illecito disciplinare, in palese violazione del dovere di fedeltà e del più generale principio di correttezza e buona fede, in quanto contraria ai doveri derivanti dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale e comunque idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (cfr. Cass. n. 29526/2022, in q. sito con nota di F. IACOBONE, n. 1379/2019, n. 22375/2017).

La Corte ha, altresì, specificato che, con riguardo al licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, “la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale”. I Giudici di legittimità possono solamente compiere una “valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (Cass. 13534/2019, annotata in q. sito da G. ROSSINI; Cass. 88/2023; Cass. n. 26043/2023, in q. sito con nota di R. FABOZZI).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE 6 NOVEMBRE 2023, n. 30866

Svolgimento del processo

1.la Corte d’Appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza del Tribunale di Enna di rigetto (in sede di opposizione, a sua volta con conferma dell’ordinanza sommaria ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48 ss.) dell’impugnativa di A.A. del licenziamento irrogatogli da Interbus il 5/1/2016 a seguito di procedimento disciplinare;

2. per quanto qui rileva, la Corte distrettuale:

– ha ritenuto sussistenti gli addebiti mossi al reclamante in sede di disciplina;

– ha ricostruito dettagliatamente i fatti di causa, collegati ad un precedente licenziamento annullato in sede giudiziale e a un contenzioso sul TFR, ampliatosi con denunce del lavoratore in sede penale;

– ha osservato che, se la proposizione di querele anche non fondate o l’opposizione a richiesta di archiviazione costituiscono prerogative legittimamente azionabili da ogni cittadino, nondimeno l’uso di tali strumenti per finalità diverse da quelle loro proprie costituisce condotta non meritevole di tutela e idonea a integrare gli estremi di una condotta illecita o connotata da malafede;

– ha ritenuto che la denuncia da parte del lavoratore in sede penale della società datrice di lavoro e del suo legale rappresentante per appropriazione indebita del TFR rappresentasse in maniera certamente dolosa fatti pacificamente non veritieri, e pertanto fondata la contestazione di addebito (consistente in un comportamento volto non ad ottenere l’eventuale punizione penale del colpevole del reato, ma diretto al fine di ledere l’onore e la rispettabilità del legale rappresentante dell’azienda, con discredito anche nei confronti degli organi della P.A con i quali la società intratteneva rapporti giuridici);

– ha ritenuto, cioè, che il fatto contestato – avere denunciato un’indebita appropriazione del TFR con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata – fosse obiettivamente incompatibile con l’elemento fiduciario caratterizzante ogni rapporto di lavoro e quindi integrante gli estremi della giusta causa di recesso, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno (la denuncia del lavoratore era stata archiviata definitivamente, nonostante due sue opposizioni alla conforme richiesta del P.M.);

3. per la cassazione della predetta sentenza ricorre A.A. con 3 motivi; resiste la società con controricorso, e propone ricorso incidentale condizionato; il ricorrente principale ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale condizionato; entrambe le parti hanno comunicato memorie; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza.

Motivi della decisione

1.con il primo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360c.p.c., n. 3) violazione dell’art. 2119c.c., L. n. 300 del 1970, art. 18 e artt. 2697 e 2909 c.c. e art. 333 c.p.c., R.D. n. 148 del 1931, art. 46: sostiene insussistenza del fatto contestato per avere rispettato il principio di continenza formale e sostanziale degli atti depositati in sede penale su consiglio dei propri legali;

2. con il secondo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360 c.p.c., n. 3) violazione dell’art. 2697 c.c., art. 333 c.p.p., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c.: sostiene la mancanza di giusta causa e la propria buona fede;

3. con il terzo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360 c.p.c., n. 3) violazione del R.D. n. 148 del 1931, art. 43 all. A, che prevede l’applicazione di sanzione conservativa nel caso di “calunnie o diffamazioni verso l’azienda o verso altri agenti”: sostiene erronea applicazione da parte dell’azienda dell’art. 45 R.D. cit., che punisce con la destituzione “chi dolosamente rechi o tenti di recare danno all’azienda nei contratti per lavori, provviste, accolli, e vendite o in qualunque altro ramo del servizio”;

4. il primo motivo di ricorso non è fondato;

5. la Corte distrettuale non ha ricollegato la fondatezza dell’addebito disciplinare alla forma degli atti e delle denunce, ma al loro contenuto, valutato, in fatto, come consapevolmente omissivo delle somme effettivamente dovute, anche in relazione a quelle già percepite, comunque in un contesto di contenzioso civile tra le parti già in corso sulle stesse questioni; da ciò la valutazione dell’esposto in sede penale presentato, e coltivato con opposizione alla richiesta di archiviazione, come puramente strumentale, e non pertinente all’effettiva tutela del diritto di credito del lavoratore, perchè basato su dati non veritieri e contabilmente scorretti;

6. se, infatti, l’esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro) non può essere di per sè fonte di responsabilità, esso può divenire tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso dell’incolpato;

7. in questo senso si articola l’addebito disciplinare concreto (esposto presentato non per rimuovere una situazione di illegalità o per tutelare i diritti del querelante. ma con la volontà di danneggiare il datore di lavoro), configurandosi la condotta di strumentalizzazione della denuncia non scriminata dall’esercizio del diritto, e atta a integrare un illecito disciplinare, alla luce del dovere di fedeltà di cui all’art. 2105c.c., letto in rapporto ai più generali canoni di correttezza e buona fede ex artt. 1175e 1375 c.c., perchè contraria ai doveri derivanti dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale e comunque idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (cfr. Cass. n. 29526/2022, n. 1379/2019, n. 22375/2017);

8. parallelamente, e in via derivata, risulta non meritevole di accoglimento il secondo motivo;

9. questa Corte ha più volte chiarito che, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.; questa Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione; l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 13534/2019, e giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche Cass. n. 985/2017, n. 88/2023, n. 26043/2023; v. anche, Cass. n. 14063/2019, n. 16784/2020, n. 17321/2020);

10. non incorre nel denunciato vizio di sussunzione la valutazione di merito circa l’integrazione nella clausola generale della giusta causa di recesso datoriale dal rapporto di lavoro dell’accertata condotta di strumentalizzazione di denuncia in sede penale di fatti consapevolmente non veritieri e con dati di fatto alterati, a prescindere dalla configurazione in concreto di possibili reati in capo al denunciante che abusi del proprio diritto;

11. neppure sussiste l’errore di sussunzione denunciato con il terzo motivo;

12. come si è detto, l’addebito contestato non è collegato alla configurazione di reato di calunnia o diffamazione, ma alla diversa ipotesi di abuso del processo, ovvero di strumentalizzazione a fine puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo; fine emulativo, ossia esclusivamente diretto ad arrecare danno al datore di lavoro, desunto dalla (ritenuta in fatto conformemente nelle fasi di merito) consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti;

13. il ricorso incidentale (con il quale si deduce violazione o falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, assumendo che l’allegazione di illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto contestato per ascrivibilità a sanzione conservativa sarebbe stata compiuta per la prima volta con l’atto di opposizione e costituirebbe così domanda nuova inammissibile), essendo stato espressamente proposto nella sola ipotesi di accoglimento del ricorso principale, e a condizione di tale accoglimento, rimane dunque assorbito;

14. parte ricorrente principale deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese del presente giudizio secondo la regola della soccombenza;

15. al rigetto del ricorso principale consegue la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per l’impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato.

Condanna parte ricorrente principale alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.500 per compensi, Euro 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Limiti all’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro
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