Il diniego del datore di lavoro di consentire al dipendente portatore di handicap lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile, quale accomodamento ragionevole, costituisce una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.

Nota a Trib. Roma 18 dicembre 2023, n. 124423

Sonia Gioia

In materia di discriminazioni sul luogo di lavoro, il rifiuto datoriale di consentire l’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità di telelavoro e il computo nel periodo di comporto delle assenze per malattia dovute alle patologie invalidanti integrano atti di discriminazione indiretta basata sull’handicap, vietati ai sensi degli artt. 2, lett. b), Dir. 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro”) e 2, co. 1, lett. b), D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuativo della citata direttiva).

Lo ha stabilito il Tribunale di Roma 18 dicembre 2023, n. 12443 in relazione ad una fattispecie concernente una lavoratrice, affetta da diverse patologie, tra cui la fibromialgia muscolo tensiva e l’obesità, che chiedeva l’accertamento del suo stato di disabilità e conseguentemente l’accesso agli strumenti di tutela dei prestatori con handicap, quali l’obbligo datoriale di realizzare gli accomodamenti ragionevoli e lo scomputo dal periodo di comporto delle assenze per malattia dovute all’invalidità.

Al riguardo, il giudice ha rilevato che la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (approvata il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con L. 3 marzo 2009, n. 18) ha introdotto “una innovativa definizione di disabilità” e di persone disabili, identificandole, ai sensi dell’art. 1, co. 2, con coloro che presentano “minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che, in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri”.

La nozione di disabilità è incentrata sulla sussistenza di menomazioni o minorazioni fisiche, psichiche o mentali idonee ad ostacolare la partecipazione del soggetto nella vita sociale e, in particolare, per quanto concerne il lavoratore, alla vita lavorativa in condizione di parità con gli altri dipendenti, con conseguente diritto al riconoscimento della tutela non solo in caso di disabilità conclamata ma anche “qualora le patologie sofferte costituiscono obiettivo ostacolo alla vita professionale alterando di fatto il rapporto di uguaglianza con gli altri lavoratori”, indipendentemente dall’accertamento medico-legale della condizione di invalidità.

Al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento, ogni datore di lavoro, sia pubblico che privato, è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli”, vale a dire “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, “a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato” (art. 5, Dir. 2000/78, cit. e art. 3, co. 3 bis, D.Lgs. n. 216, cit.).

Si tratta di adeguamenti, latu sensu, organizzativi che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, vale a dire per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa, seppur entro il limite di un onere finanziario proporzionato e non eccessivo (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie), stante l’esigenza del mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa (considerando n. 21 e art. 5, Dir. 2000/78 cit.).

Il canone della ragionevolezza dell’accomodamento implica, poi, che la modifica organizzativa non debba pregiudicare significativamente l’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti, il tutto in un’ottica di rispetto dei principi di correttezza e buona fede che presidiano ogni rapporto contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., e di un adeguato bilanciamento degli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte, vale a dire quello del lavoratore disabile al mantenimento di un impiego confacente con il suo stato psicofisico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà, e del datore di lavoro a garantirsi comunque una prestazione utile all’impresa.

Da ciò discende che il rifiuto dell’imprenditore di consentire lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità di telelavoro, quale accomodamento ragionevole, e l’applicazione del medesimo periodo di comporto a tutti i dipendenti, senza l’adozione di misure adeguate a tutela dei disabili, integrano una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità poiché pongono la persona invalida in una posizione di oggettivo svantaggio rispetto agli altri prestatori (sul tema, v. anche Trib. Parma 9 gennaio 2023, n. 1, in q. sito, con nota di S. GIOIA, e giurisprudenza ivi richiamata).

Nel caso di specie,  il giudice, dopo aver accertato lo stato di disabilità e verificato che le patologie invalidanti rendevano particolarmente gravoso lo spostamento dal domicilio al luogo di lavoro, ha ritenuto che la prosecuzione dell’attività lavorativa prevalentemente in presenza fosse idonea ad aggravare le condizioni di salute della dipendente e a pregiudicarne il diritto alla professionalità, con conseguente riconoscimento del diritto a svolgere l’attività di impiego per lo più mediante modalità agile, oltre allo scomputo dal periodo di comporto delle assenze per malattia dovute alla disabilità, considerato anche che la società datrice nulla aveva eccepito in ordine ad oneri sproporzionati o eccessivi conseguenti a tale modifica di esecuzione della prestazione di lavoro.

Sentenza

Lavoratori disabili: discriminatorio il rifiuto datoriale al lavoro agile
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