Il lavoratore è tutelato nei confronti sia di condotte plurime persecutorie determinanti  una situazione stressogena che di un demansionamento o straining.

Nota a Cass. n. 7844/2018, n. 3977/2018, n. 3871/2018 e n. 1381/2018

Paolo Pizzuti

Nell’ipotesi di una denuncia di mobbing o di straining, anche laddove si accerti la non continuità degli atti lesivi o l’assenza di un intento persecutorio, ciò non esonera il giudice da una valutazione circa la violazione dell’art. 2087 c.c. da parte dei predetti atti o omissioni.

In quest’ottica, la Corte di Cassazione (ord. 29 marzo 2018 n. 7844) ha affermato essere in linea con la giurisprudenza di legittimità in tema di “straining”, la motivazione dei giudici di merito “sulla situazione lavorativa conflittuale di stress forzato – accresciuto dall’allontanamento del lavoratore dalla direzione generale, nonché dall’invio di lettere di scherno diffuse in banca – in cui il dipendente avrebbe subìto azioni ostili anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo (quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing) ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio” (in tema, v. anche Cass. n. 16335/2017 e n. 3291/2016, secondo la quale la situazione di stress che violi l’art. 2087 c.c. può anche derivare “tout court dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente ostile per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo”.

Allo stesso modo la privazione di ogni mansione è stata considerata straining e, in quanto tale, idoneo a cagionare uno stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima (un’insegnante) dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio, da Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977, la quale  ha rilevato che la Corte ha da tempo fornito un’interpretazione estensiva (costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari, quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.), non circoscrivendolo al solo ambito della prevenzione antinfortunistica in senso stretto. Ciò, “in quanto l’obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona; … la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti”.

In questo quadro, i giudici hanno riscontrato una responsabilità dell’amministrazione poiché il lavoratore era stata oggetto di azioni ostili “consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità”.

La Cassazione, invece, con la sentenza n. 1381/2018, non ha considerato mobbing, bensì condotta riconducibile alla normale conflittualità nell’ambiente lavorativo, la conflittualità accentuata da reciproche recriminazioni determinate dalla fine della relazione sentimentale tra il datore di lavoro e la dipendente. Nella fattispecie, una lavoratrice, a seguito della rottura della relazione sentimentale con il proprio datore di lavoro, si era dapprima assentata per malattia per oltre nove mesi, e poi dimessa per giusta causa, chiedendo la condanna della società al risarcimento dei danni psicofisici causati dai comportamenti asseritamente persecutori e denigratori posti in essere nei suoi confronti dall’amministratore unico dell’azienda. Quest’ultimo aveva  anche manifestato l’intento di demansionarla e, con comportamenti aggressivi ed offensivi, le aveva cagionato  continue crisi di pianto.

I giudici di legittimità hanno escluso il mobbing per la mancanza di presunzioni gravi, precise e concordanti circa la condotta lesiva attuata dalla parte datoriale, nonché “per il difetto di sistematicità e reiterazione degli episodi denunziati ed accertati, come richiesto in relazione alla fattispecie di mobbing”; ed hanno negato che gli episodi lamentati fossero lesivi della salute della lavoratrice, in quanto gli stessi non travalicavano “la normale conflittualità presente in ogni ambito lavorativo, in questo caso accentuata dalle recriminazioni scaturite dalla rottura del legame sentimentale”.

In generale, v. Cass. 16 febbraio 2018, n. 3871, la quale ha ribadito il principio consolidato che “ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (v. anche Cass. 17 gennaio 2014, n. 898 e Cass. 26 marzo 2010, n. 7382)”.

Mobbing e straining
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