Il lavoratore che violi il patto di non concorrenza deve restituire le somme
percepite, in costanza di lavoro, a titolo di corrispettivo del patto.

Nota a Cass. 11 giugno 2018, n. 15097

Francesco Belmonte

Il patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.), nel rapporto di lavoro subordinato, è nullo qualora:

a) “il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo”;

b) l’ampiezza del vincolo sia tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che “ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita”.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (11 giugno 2018, n. 15097; v. anche Cass. 4 aprile 2006, n. 7835; Cass. 2 maggio 2000, n. 5477) con riferimento alla stipulazione di un patto di non concorrenza che  prevedeva per il lavoratore, successivamente alla risoluzione del rapporto con l’azienda, il divieto di svolgimento, per la durata di un anno, di attività lavorativa di qualsivoglia tipo o natura, sia “autonoma che subordinata ed anche per il tramite di terzi, nel settore in cui era inserita l’azienda di provenienza, o comunque in cui potesse essere sfruttata la tecnologia che presiedeva alla produzione della stessa”.

Nello specifico, i giudici, confermando App. Brescia 8 giugno 2013, hanno ritenuto rispettato, nel patto violato dal lavoratore, il principio di equo contemperamento degli interessi delle parti,così come quello di congruità economica del patto in questione, ed hanno escluso ogni compromissione, da parte del vincolo, dell’attività successiva del ricorrente, condannandolo alla “restituzione delle somme percepite a titolo di corrispettivo del patto in costanza di lavoro, per mancanza di titolo al relativo trattenimento”.

Come noto, il patto in questione si riferisce al periodo successivo al rapporto di lavoro e, pertanto, si differenzia dal divieto di concorrenza (v. art. 2105 c.c.), che è “operativo”, senza bisogno di alcuna pattuizione, nel corso dello svolgimento della relazione lavorativa. La sua durata, inoltre, “non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata” (art. 2125 c.c.) (In tema, v., in questo sito, M.N. BETTINI, Patto di non concorrenza e clausola di recesso discrezionale, Nota a Cass. 2 gennaio 2018, n. 3).

Patto di non concorrenza
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