Il licenziamento del dirigente medico, non preventivamente autorizzato a svolgere altri incarichi esterni, è legittimo.

Nota a Cass. 21 agosto 2018, n. 20880

 Alfonso Tagliamonte

Il medico dipendente a tempo indeterminato di una pubblica amministrazione è tenuto a rispettare gli obblighi che scaturiscono da tale rapporto in merito al regime  delle incompatibilità ed il divieto di cumulo di cui al DPR n. 3/1957, richiamato dall’art. 53, D.LGS. n. 165/2001, e non può sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto facendo leva sulla disciplina dettata, ad  altri fini, dall’art. 2, co.2, L. n. 740/1970, secondo cui “…Ai medici incaricati (presso gli istituti di prevenzione e di pena) non sono applicabili le norme relative alla incompatibilità e al cumulo di impieghi né alcuna altra norma concernente gli impiegati civili dello Stato. A tutti i medici che svolgono, a qualsiasi titolo, attività nell’ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili altresì le incompatibilità e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale”.

Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione 21 agosto 2018, n. 20880, la quale osserva (secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato) che le prestazioni rese dai medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena “non integrano un rapporto di pubblico impiego, bensì una prestazione d’opera professionale caratterizzata dagli elementi tipici della parasubordinazione” (v. Cass. S.U. n. 7901/2003 e Cass. S.U. n.12618/1998), la quale rinviene la propria fonte normativa nel complesso delle norme speciali contenute nella L. n. 740/1970 (v. Cass. n. 10189/2017).

Il legislatore, inoltre, in considerazione della particolare penosità del servizio prestato dai sanitari addetti agli istituti penitenziari (v. Cass. n. 14947/2016; Cass. n. 17092/2010), non ha esteso ai medici incaricati che svolgono «a qualsiasi titolo» la loro attività «le incompatibilità e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale», avendo gli stessi un rapporto speciale parasubordinato analogo a quello instaurato con i medici convenzionati. In particolare, la legge regolamenta il rapporto fra il sanitario e l’amministrazione penitenziaria, escludendo l’obbligo di esclusività, “anche al fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all’incarico, in considerazione della peculiare natura dello stesso”.

Da tale affermazione non discende però il diritto del medico, titolare di rapporti diversi da quello in oggetto, i quali soggiacciono a precise regole di esclusività, di cumulare l’incarico con qualsiasi altra attività. In altre parole, se il rapporto di lavoro “originale” del medico è caratterizzato da esclusività, “l’obbligo resta immutato, e non rileva che l’incarico ulteriore che si pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della L. n. 740/1970”.

Ciò posto, la Corte rileva che, «nell’impiego pubblico contrattualizzato, il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva» (così, Cass. n. 8722/2017)

In base al citato D.LGS. n. 165/2001, infatti, nel pubblico impiego, “l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio può solo rilevare, eventualmente, quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, perché il principio dell’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore sia discrezionale, di modo che l’inerzia possa essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione in termini di liceità della condotta”.

Invece, i doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva rendono l’azione disciplinare doverosa in ragione della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato “al servizio della Nazione”, lo impegnano all’osservanza dei “doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico” (art. 54, D.LGS. cit.).

Con la conseguenza che la segnalazione dell’illecito lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta attuata in consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, e per questo non scriminabile dall’inerzia colpevole del soggetto tenuto a segnalare l’illecito medesimo.

Nella fattispecie, i giudici hanno ravvisato nel comportamento del medico, non preventivamente autorizzato allo svolgimento di incarichi esterni, una condotta idonea, per la sua gravità, a ledere il vincolo fiduciario, in considerazione sia degli aspetti oggettivi dell’illecito (numero e durata degli incarichi, produttivi di redditi consistenti), sia del profilo soggettivo, “rilevando che la corrispondenza intercorsa fra le parti, lungi dal provare la buona fede del medico dimostrava, al contrario, come lo stesso fosse ben consapevole del regime di incompatibilità, tanto che per altri incarichi aveva provveduto ad inoltrare all’ente richiesta di autorizzazione”.

Né, precisa il Collegio, si può eccepire che la mancanza di una previsione ad hoc della condotta addebitata e della relativa sanzione, da parte della legge e della contrattazione collettiva, rende inapplicabile il licenziamento. L’art. 55 quater, D.LGS. cit. richiama infatti la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo “e attraverso detto richiamo consente di infliggere la sanzione espulsiva a fronte di condotte non sussumibili nelle fattispecie tipizzate dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ma comunque idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e, quindi, a giustificare il recesso immediato o con preavviso”. Va, infatti, precisato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una “disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama”.

È dunque indubitabile che la reiterata violazione dell’obbligo, con rilevanza disciplinare, imposto dall’art. 53, co.7, cit., “alla quale la stessa disposizione riconosce, al comma 7, rilevanza disciplinare, giustifichi il recesso, poiché l’obbligo di esclusività riveste un ruolo particolarmente rilevante nella disciplina del rapporto, trovando fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost., secondo cui « i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione », e nel principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., con il quale si sottrae il dipendente pubblico “dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività” (cfr. Cass. n. 28797/2017; e Cass. n. 28975/2017).

Incompatibilità del medico incaricato presso gli istituti di prevenzione e pena (Cass. n. 20880/2018)
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