In caso di esuberi determinati ad una crisi aziendale, qualora non siano osservate le procedure sindacali è inammissibile la conversione del licenziamento collettivo in licenziamento individuale plurimo.

Nota a Trib. Latina 30 novembre 2020, n. 14467

Paolo Pizzuti

Il datore di lavoro, una volta avviata la procedura di licenziamento per riduzione di personale “sussistendone i presupposti di legge”, non può convertire il licenziamento collettivo in licenziamento individuale “sulla base del mero dato sopravvenuto della riduzione degli esuberi al di sotto della soglia legale, esuberi che comunque devono collocarsi nella procedura di licenziamento costituendone l’esito”. Ne consegue l’annullamento del licenziamento con reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (v. art. 5, co. 3, L. n. 223/1991, come novellata dalla L. n. 92/2012).

È quanto afferma il Tribunale di Latina 30 novembre 2020, n. 14467, il quale precisa che, stante il principio di immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo di recesso, il datore di lavoro non può addurre a giustificazione del licenziamento fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento della intimazione del recesso medesimo, “ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti” (v. Cass. n. 7851/2019; Cass. n. 2935/2013 e Cass. n. 13884/2012).

In altri termini, il licenziamento individuale fondato sulle medesime ragioni giustificative del licenziamento collettivo è illegittimo in quanto, in questa ipotesi, il datore di lavoro è tenuto a “veicolare la libertà d’impresa nell’ambito del controllo sindacale senza poter procedere a successivi licenziamenti individuali”.

Le esigenze di tutela sottese alla procedura di mobilità resterebbero infatti prive di effettività qualora, all’esito della gestione “procedimentalizzata” dei motivi di riduzione del personale (addotti nella comunicazione di avvio della procedura), fosse consentito al datore di lavoro di “ritornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale, ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero ovvero quanto ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo”.

Nella fattispecie sottoposta al vaglio del Tribunale, il licenziamento di 9 lavoratori, poi ridotto a 3, si fondava sulle ragioni che avevano determinato la crisi aziendale e la necessità di avviare procedure di mobilità. Sicché, secondo il collegio, l’azienda non poteva scegliere unilateralmente di abbandonare la procedura legale per effettuare licenziamenti individuali plurimi “semplicemente per aver ridotto il numero degli esuberi, così sottraendosi a quelle esigenze di controllo sociale sottese al licenziamento collettivo”.

In particolare, i giudici sottolineano che per caratterizzare la riduzione di personale, distinguendola dal licenziamento plurimo, non assume rilievo decisivo la specifica ragione addotta a sostegno della risoluzione del rapporto di lavoro (v. Cass. n. 11455/1999), bensì l’espletamento dell’iter procedurale di cui all’art. 4, L. n. 223/1991. Per cui laddove una società indichi un’eccedenza di manodopera (di più di 5 dipendenti) e una riduzione di attività senza osservare gli obblighi di comunicazione preventiva previsti dal citato art. 4, co. 3, è irrilevante che, “conclusasi la procedura con un mancato accordo, la decisione del datore id lavoro si limiti poi a soli tre esuberi e che il licenziamento venga motivato “per soppressione della posizione lavorativa”, quale effetto della “riorganizzazione e razionalizzazione” di alcune attività aziendali.

Trasformazione del licenziamento collettivo in licenziamento individuale
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