Qualora la quasi totalità del personale espulso per riduzione di personale coincida con quello precedentemente sospeso in cassa integrazione guadagni, il licenziamento è discriminatorio.

Nota a Trib. Civitavecchia 1 marzo 2018

Fabio Iacobone

Il nostro ordinamento vieta (con disposizione applicabile anche ai dirigenti) il licenziamento discriminatorio (ai sensi degli artt. 4, L. 15 luglio 1966, n. 604 e 15, Stat. Lav., come mod. dall’art.13, L. 9 dicembre 1977, n. 903), ossia determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero oppure frutto di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Tale licenziamento è sanzionato con la nullità (art. 3, co. 1, L. n. 108/1990), “indipendentemente dalla motivazione addotta” e “quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”, e comporta le conseguenze previste dall’art. 18 Stat. Lav. (reintegrazione nel posto di lavoro).

Tuttavia, come precisato dalla Corte di Cassazione, il lavoratore non viene tutelato soltanto a fronte di queste specifiche ipotesi di licenziamento, ma l’ordinamento appresta una tutela più ampia, che ricomprende anche le discriminazioni causate da fattori non tipizzati (v., al riguardo, Cass. n. 24648/2015, per la quale: “il divieto di licenziamento discriminatorio – sancito dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, dalla L. n. 300 del 1970, art. 15 e dalla L. n. 108 del 1990, art. 3 – è suscettibile di interpretazione estensiva” e Cass. n. 18927/2012, per cui: “In ordinamenti come il nostro, che già prevedono a livello costituzionale norme di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore, il suindicato elenco di fattori discriminatori e/o vessatori non è da considerare tassativo (ed è anzi destinato ad acquisire particolare rilevanza ai fini dell’applicazione della speciale forma di tutela prevista dalla L. n. 92 del 2012 in caso di licenziamento discriminatorio)”.

In questo quadro, i giudici, tenendo conto, oltre che dell’art. 3 Cost. (v. Corte Cost. n. 109/1993), del processo evolutivo registrato in ambito comunitario in materia di diritto antidiscriminatorio ed antivessatorio (v. l’introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE da parte del Trattato di Amsterdam del 1997; l’art. 14 CEDU e l’art. 21 della Carta di Nizza), hanno più volte sanzionato le condotte discriminatorie dirette ed indirette anche alla luce del particolare regime dell’onere probatorio (v. D.LGS. nn. 215 e 216/2003 e Cass. n. 10834/2015). Infatti, secondo l’art. 28, co.4, D.LGS. n. 150/2011: “4. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.

È quanto osserva il Tribunale di Civitavecchia (1 marzo 2018) in relazione al licenziamento collettivo di più lavoratori che l’azienda aveva precedentemente collocato in cassa integrazione guadagni. Nello specifico, il lavoratore ha affermato che il recesso datoriale era avvenuto esclusivamente in ragione della appartenenza ad una “categoria di cui l’azienda voleva disfarsi” (ossia i cassaintegrati) e, a sostegno di tale assunto, ha fornito un preciso dato statistico: il 90% del personale licenziato era composto da dipendenti in cassa integrazione guadagni. Ciò, senza che l’azienda procedesse ad una comparazione fra lavoratori sulla scorta dei criteri individuati dalle parti sociali (ossia il possesso di certificazioni, abilità professionali, anzianità di servizio e carichi di famiglia). Ne consegue la presunzione che il licenziamento sia avvenuto per ragioni discriminatorie, né, secondo il lavoratore ricorrente, l’azienda ha dimostrato l’esistenza di motivi di carattere oggettivo alla base della scelta di quei destinatari del recesso.

La giurisprudenza di legittimità, peraltro, ha già in passato riconosciuto la tutela prevista dall’ordinamento per il licenziamento discriminatorio in un’ipotesi di licenziamento per riduzione di personale in quanto lo stesso è stato ritenuto “diretto ad evitare il reinserimento effettivo nell’organizzazione produttiva dei lavoratori che rientrino da un periodo di sospensione per ricorso alla cassa integrazione guadagni straordinaria (v. Cass. n. 21697/2009)”.

Secondo i giudici:

a) la selezione degli esuberi nelle procedure di licenziamento collettivo che interessano grandi società ove prestano servizio lavoratori dotati di professionalità tra loro anche molto diversificate “non può avvenire indistintamente nell’ambito dell’intera platea dei dipendenti aziendali”, ma devono essere articolate nell’ambito delle distinte professionalità. A ciò non osta la circostanza che l’art. 5, L. n. 223/1991 riferisca espressamente le esigenze tecnico produttive all’intero complesso aziendale, poiché tale previsione è “dettata in ragione dell’esigenza di ampliare al massimo l’area in cui operare la scelta dei lavoratori da licenziare, onde approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore, in cui tanto più facilmente si può incorrere quanto più si restringe l’ambito della selezione”;

b) occorre, pertanto, comparare tutti i lavoratori che possiedono un profilo professionale tra di loro fungibile – sulla scorta della classificazione contenuta nel contratto collettivo applicato e tenuto conto dei principi dettati dall’art. 2103 c.c. – e procedere nell’ambito dello stesso alla applicazione degli altri criteri indicati dalle parti sociali (possesso di certificazioni/abilitazioni, abilità professionali su specifici apparati, anzianità di servizio, carichi di famiglia). Tale fungibilità può cioè apprezzarsi avendo riguardo non alla specifica attività (all’interno dell’organizzazione aziendale) alla quale il singolo lavoratore è stato da ultimo assegnato, “bensì alla sfera di compiti che rientrano nel suo bagaglio professionale e che, dunque, legittimamente possono venirgli richiesti dal datore di lavoro nell’ambito dell’art. 2103 c.c. – con riguardo dunque alla classificazione del personale contenuta nella contrattazione collettiva di riferimento “ma con la precisazione che occorre dare preminente rilievo professionale, potendo la categoria d’inquadramento constare, appunto, di più e distinti profili professionali”. Ciò che rileva, insomma, è il profilo professionale di ciascun lavoratore e soltanto rispetto a questo deve essere compiuta la valutazione di fungibilità. Ragionando diversamente, si consentirebbe al datore di lavoro di sottrarre alcuni lavoratori al licenziamento collettivo e di includerne altri solo adibendoli – a parità di qualifica professionale – ad un compito piuttosto che ad un altro;

c) non può, perciò considerarsi legittima la scelta di specifici lavoratori “solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quelle di addetti ad altre realtà organizzative” (così, Cass. n. 203/2015 e n. 17177/2013).

Tutto ciò premesso, dunque, l’azienda non può omettere di allegare i requisiti professionali richiesti per lo svolgimento di ciascuna mansione, essendo tenuta a delineare “con precisione i profili professionali richiesti per l’espletamento delle singole mansioni, palesando così le ragioni della presunta infungibilità del profilo professionale del lavoratore licenziato. Con la precisazione che, in mancanza di puntuali deduzioni contrarie, è possibile presumere … che vi sia completa fungibilità tra i lavoratori inquadrati nel medesimo livello e profilo professionale sulla base della contrattazione collettiva di riferimento”. (Sulla presunzione di fungibilità basata sull’inquadramento nel medesimo profilo e livello, cfr. Trib. Torino 12 agosto 2017, in questo sito, con nota di P. PIZZUTI, Criteri alla base del licenziamento collettivo e trasferimento d’azienda).

Secondo il Tribunale, dunque, va dichiarata la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 18, co. 1, Stat. Lav., in quanto discriminatorio, con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, con interessi e rivalutazione al saldo (In tema, v., in questo sito,  F. BELMONTE, La tutela giudiziaria avverso le condotte discriminatorie: l’onere della prova).

Se poi, nel frattempo, vi sia stata cessione dell’azienda (successivamente al licenziamento, come noto, l’azienda della compagnia di volo era stata ceduta da Alitalia-CAI a Alitalia-SAI), i giudici, sulla base di un’interpretazione conforme al diritto comunitario, affermano che l’art. 2112 c.c. può essere derogato dalle aziende in stato di crisi (senza finalità liquidatorie) solo per aspetti riguardanti la disciplina e non per il diritto alla continuità del rapporto di lavoro; escludono, pertanto, la possibilità di un passaggio solo parziale del personale (pur se azienda in crisi), ed affermano che la reintegrazione va pronunciata nei confronti del cessionario.

Licenziamento collettivo discriminatorio atipico e cassa integrazione guadagni
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