Concedere alle sole lavoratrici madri un congedo di maternità aggiuntivo a quello legale non costituisce discriminazione in danno dell’uomo purché finalizzato a tutelare la speciale condizione biologica e fisiologica della donna dopo la gravidanza.

Nota a CGUE 18 novembre 2020, C- 463/19

Sonia Gioia

In materia di parità di trattamento sul luogo di lavoro, la disposizione di un contratto collettivo che riservi alle sole prestatrici che si prendono cura in prima persona dei propri figli il diritto ad un congedo, dopo la scadenza di quello legale di maternità, non integra una discriminazione in danno dei lavoratori di sesso maschile, “a condizione che tale congedo supplementare sia diretto a tutelare le lavoratrici con riguardo tanto alle conseguenze della gravidanza quanto alla loro condizione di maternità”, circostanza che spetta al giudice di merito accertare, tenendo conto delle condizioni di concessione di tale beneficio, delle modalità e della durata del medesimo, nonché del livello di protezione giuridica ad esso connesso.

Tale principio è stato affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea 18 novembre 2020, C-463/19, investita della questione dal giudice francese (Conseil de prud’homme de Metz) in merito al caso di un padre lavoratore che lamentava il carattere discriminatorio della previsione collettiva (ccnl dipendenti degli enti previdenziali) che riserva un congedo di maternità supplementare soltanto alle dipendenti che si prendono cura in prima persona dei propri figli, con esclusione dei prestatori di sesso maschile.

In merito, la Corte ha ribadito che, per quanto concerne le condizioni di impiego e lavoro, è vietata qualsiasi forma di discriminazione, diretta o indiretta, fondata sul sesso,   salvo che la diversità di trattamento sia giustificata dall’esigenza di tutelare la speciale condizione della donna in maternità [artt. 14, par.1, lett. (c, e 28, Direttiva 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego], che non è equiparabile  a quella di un lavoratore di sesso maschile né a quella di una prestatrice assente per malattia ( v. CGUE 21 maggio 2015, C-65/14; CGUE 18 marzo 2014,  C-167/12; CGUE 20 settembre 2007, C-116/06).

In particolare, la vulnerabilità delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, “rende necessario” un diritto ad un congedo di maternità di almeno 14 settimane ininterrotte, ripartite prime e/o dopo il parto (considerando 14 e art. 8, Direttiva 1992/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento), al fine di  salvaguardare la condizione biologica e fisiologica della donna e assicurare la protezione delle particolari relazioni tra la madre e il bambino, che potrebbero essere “turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal contemporaneo svolgimento di un’attività lavorativa” (CGUE 4 ottobre 2018, C-12/17).

Durante il congedo, alla lavoratrice devono essere garantiti i diritti connessi al contratto di lavoro, “compreso il mantenimento di una retribuzione e/o il versamento di un’indennità adeguata” (art. 11, Dir. 1992/85 cit.) nonché “una protezione contro il licenziamento”, vietato nel lasso di tempo intercorrente tra l’inizio della gravidanza e la scadenza del congedo, salvo “casi eccezionali” non connessi a tale stato (art.10, Dir. 1992/85 cit.). Decorso tale periodo, la dipendente ha diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente, “secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli, e beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza” (art. 15, Dir. 2006/54 cit.).

Al termine del congedo legale di maternità, alla prestatrice può essere legittimamente riservato un ulteriore periodo di astensione dal lavoro a condizione che:

  • sia concesso al fine di tutelare la donna, non in quanto genitore, ma “con riguardo sia alle conseguenze della gravidanza sia alla sua condizione di maternità”, indipendentemente dall’anzianità di servizio o da un accordo con il datore di lavoro;
  • non superi “la durata che risulta necessaria per tale protezione”;
  • garantisca una tutela giuridica conforme a quella soprarichiamata del congedo legale di maternità.

Diversamente, un beneficio concesso alla donna solo per la sua qualità di genitore costituisce una discriminazione in danno dell’uomo, vietata ai sensi degli artt. 14 e 28 Dir. 2006/54 cit., dal momento che i lavoratori di sesso maschile e femminile sono “comparabili per quanto riguarda l’educazione dei figli” (CGUE 12 dicembre 2019, C-450/18; CGUE 29 novembre 2011, C-366/99).

In attuazione di tali principi, la Corte ha ritenuto che la clausola di un contratto collettivo che riservi alle sole madri che si prendono cura in prima persona dei propri figli un congedo di maternità supplementare non viola il principio di parità di trattamento purché finalizzata a tutelare la donna nella delicata fase successiva al parto.

Tale verifica deve essere effettuata, in concreto, dal giudice di merito valutando le condizioni di concessione, la durata e le modalità di fruizione di tale beneficio nonché la protezione giuridica ad esso connessa e tenendo conto che il solo fatto che un congedo segua immediatamente quello legale di maternità “non è sufficiente” per ritenere che esso possa essere riservato alle sole lavoratrici madri, con esclusione dei padri”.

Non discriminatorio un congedo di maternità supplementare riservato alle sole donne
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