Per il dipendente pubblico l’esercizio della professione forense è incompatibile.

Nota a Cass. 13 aprile 2021, n. 9660

Fabio Iacobone

Ad eccezione che per l’attività d’insegnamento o di ricerca nelle materie giuridiche, il dipendente pubblico non può esercitare la libera professione.

Questa, l’affermazione della Corte di Cassazione (13 aprile 2021, n. 9660, conf. a App. Napoli, n. 5661/2018) relativamente a ricorso di una dipendente di un’Università, assunta a tempo parziale nel 2002 con compiti tecnico-amministrativi e contemporaneamente esercente la professione di avvocato con iscrizione all’albo già dal 1993. La lavoratrice aveva chiesto al giudice di dichiarare la compatibilità tra le due attività, proponendo la questione di costituzionalità della legge contenente il divieto dell’esercizio stesso.

Nello specifico, l’Università, nel 2015, facendo leva sulle modifiche normative di cui alla L. n. 339/2003, aveva contestato l’esercizio in questione emettendo, nel 2016, provvedimento di decadenza dall’impiego ai sensi del D.P.R. n. 3/1957, art. 63 (poi impugnato davanti al Tribunale di Napoli, con processo, quest’ultimo, poi sospeso in attesa della decisione pregiudiziale della presente causa).

La Cassazione analizza le diverse disposizioni di legge succedutesi in materia (dal 1933 al 2012) e, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di giustizia, della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle Sezioni Unite della stessa Cassazione, ha confermato l’incompatibilità, salvo che per l’attività del dipendente pubblico d’insegnamento o di ricerca nelle materie giuridiche.

In dettaglio, la Corte ha esaminato:

– il R.D.L. n. 1578/1933, art. 3, co. 2, che disciplina l’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, secondo cui l’esercizio di tali professioni “è incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni… e in generale di qualsiasi altra Amministrazione o Istituzione pubblica soggetta a tutela e vigilanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni”, escludendo peraltro dall’incompatibilità (co. 4 lett. a) “i professori e gli assistenti delle Università e degli altri Istituti superiori ed i professori degli Istituti secondari”;

– il D.P.R. n. 3/1957, art. 60, secondo cui “l’impiegato non può esercitare… alcuna professione” pena la decadenza dall’impiego, previa diffida (art. 63).

– il D.LGS. n. 29/1993, art. 58 (poi trasfuso nel D.LGS. n. 165/2001, art. 53) che, nel fornire la prima disciplina organica dell’impiego pubblico privatizzato, contiene un richiamo espresso alla L. n. 662/1996, (artt. 60 e ss.), escludendo l’applicazione delle norme “che vietano l’iscrizione in albi professionali… ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni” in regime di part time c.d. ridotto;

– la sopravvenuta  L. n. 339 del 2003, contenente “norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato”, la quale, all’art. 1, ha escluso gli avvocati dall’applicazione della L. n. 662/1996, art. 1, co. 56 (e co. 56-bis) regolando, all’art. 2, una facoltà di opzione per i dipendenti iscritti all’albo degli avvocati dopo l’entrata in vigore della L. n. 662 del 1996, nel senso della possibilità di scegliere nel termine di trentasei mesi per il mantenimento dell’impiego pubblico o in alternativa della professione forense, con facoltà in quest’ultimo caso ed entro cinque anni, di essere riammesso all’impiego pubblico;

– e, da ultimo, la L. n. 247/2012, art. 19, contenente la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, la quale dispone che, nonostante l’incompatibilità con il lavoro autonomo, l’attività di impresa e il lavoro subordinato (art. 18 della Legge stessa), l’esercizio della professione di avvocato è compatibile con l’insegnamento o la ricerca in materie giuridiche nell’università, nelle scuole secondarie pubbliche o private parificate e nelle istituzioni ed enti.

Dopo aver esaminato le sentenze n. 339/2003; n. 189/2001; n. 390/2006 e n. 166/2012 della Corte Costituzionale, i giudici richiamano la decisione delle SU. n. 11833/2013, la quale (ragionando sugli effetti derivanti dal D.L. n. 138/2011, conv. in L. n. 148/2011 (art. 3, co. 1 e 5-bis), nonché dal citato D.P.R. attuativo n. 137/ 2012), ha affermato che “è da escludere non solo una abrogazione tacita delle disposizioni della L. n. 339 del 2003, per effetto della normativa sopravvenuta e sopra richiamata per il rilievo decisivo ed assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente”,; e che la ratio di fondo della normativa limitativa del cumulo è quella “tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti, a conferma della coesistenza degli interessi di cui si è detto e della discrezionale regolazione del loro rapporto ad opera della normativa di legge”.

Quanto alle deroghe al principio di incompatibilità di cui al R.D.L. n. 1578/1933, art. 3, co. 4, lett. a), ed ora alla L. n. 247/2012, art. 19, esse, precisa la Cassazione, riguardano il pubblico impiegato che opera, presso la P.A. con riferimento alle Università, come professore o assistente (art. 3, co. 4, cit., lett. a, cit.) oppure (nella versione di cui all’art. 19 cit.), si occupa di insegnamento o ricerca in materie giuridiche.

Ciò, nell’ottica della tutela del valore dell’insegnamento (art. 33 Cost.) e di quello della ricerca (art. 9 Cost.), “ritenuti prevalenti oltre che non confliggenti con l’interesse al libero esercizio dell’attività forense e tendenzialmente compatibili, nel bilanciamento degli interessi, rispetto al buon andamento della P.A.”.

Ciò, sebbene anche l’insegnamento possa comportare valutazioni preclusive da parte della P.A. qualora si manifesti una situazione di confitto di interessi (ex art art. 58-bis, disposizione sopravvissuta, rispetto agli avvocati, anche alla L. n. 339/2003 (così, Cass. n. 26016/2018, in q. sito con nota di K. PUNTILLO).

Da tale quadro, si evince che le ipotesi di compatibilità “costituiscono eccezioni ad una regola, quella dell’incompatibilità che, come si è detto, è stata voluta dal legislatore al fine di evitare i rischi che derivano dalla ‘commistione’ tra attività forense e pubblico impiego (v. Corte Cost. n. 390/2006, cit.).

L’eccezionalità delle deroghe all’incompatibilità esclude poi l’estensione delle ipotesi in questione ad altre contigue o similari.

Come precisa la Corte, è possibile che per alcune figure, ad inquadramento impiegatizio, “ma la cui attività sia caratterizzata da specifiche cognizioni tecniche, si possa porre il problema di valutare se resti intercettata o meno l’area della compatibilità rispetto all’insegnamento o alla ricerca, di cui si è detto. Tale è il caso della categoria D del c.c.n.l. Comparto Università 1998-2001, di inquadramento della V., specie con riferimento alle posizioni dell’Area tecnico-scientifica”.

Tuttavia, per integrare la deroga al principio in oggetto, è necessario “il pieno esercizio dell’insegnamento, che nell’ambito universitario è fatto di docenza e ricerca, come anche il pieno esercizio della ricerca in sé considerata”. Non è cioè sufficiente lo svolgimento di attività “a supporto” della docenza (tutoraggio di studenti, partecipazione a seminari o a commissioni esami) ovvero di “ausilio” per i docenti, come nel caso dei cultori della materia che, pur partecipando agli esami di profitto, non rientrano nelle “mansioni proprie dell’ambito di assunzione”.

Pubblico dipendente: esercizio della professione forense e incompatibilità
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