Il dipendente, vittima di infortunio sul lavoro, è tenuto a provare, ai fini del risarcimento del danno, il pregiudizio alla salute, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso tra l’uno e l’altra, mentre compete all’imprenditore dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore.

Nota a Cass. (ord.) 29 aprile 2022, n. 13640

Sonia Gioia

In caso di infortunio sul luogo di lavoro, il prestatore che lamenti di aver subìto, a causa dell’attività lavorativa, un pregiudizio alla salute è tenuto a provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro – che altro non è che il fattore di rischio connesso alla modalità e alla tipologia della prestazione lavorativa – nonché il nesso causale tra l’una e l’altra, “e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (ord., 29 aprile 2022, n. 13640, difforme da App. Milano n. 1037/2015), in relazione ad una fattispecie concernente la domanda di risarcimento del danno patito da una lavoratrice, dipendente di un istituto pubblico, che, nello svolgimento delle proprie mansioni, era stata investita da una porta rovinatale addosso, riportando lesioni personali.

In sede giudiziale, la prestatrice aveva provato che l’infortunio si era verificato a causa della fuoriuscita dai cardini del battente di una porta ubicata in un luogo di passaggio e che il datore di lavoro aveva violato le norme che impongono di provvedere alla regolare manutenzione tecnica nonché ad eliminare, quanto più rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la sicurezza e la salute delle maestranze (ex art. 64, lett. c), D. LGS. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i., c.d. “Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”).

Sul punto, la Corte d’Appello di Milano, conformemente al giudice di prime cure, aveva, tuttavia, ritenuto non assolto l’onere probatorio gravante sulla dipendente, poiché “non aveva fornito alcuna descrizione dei luoghi, non aveva individuato la porta dello stabile che le sarebbe rovinata addosso, non aveva descritto le condizioni della stessa né aveva precisato quali vizi o difetti presentasse”.

Come noto, la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso al dipendente configura un’ipotesi di responsabilità contrattuale, in quanto non dipende dal mero verificarsi dell’evento dannoso in connessione all’espletamento dell’attività lavorativa ma va collegata alla violazione degli obblighi imposti da norme di legge o fonti parimenti vincolanti (c.d. misure nominate) o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (c.d. misure innominate).

Ciò, ai sensi dell’art. 2087 c.c. che integra e inserisce, ex lege (art. 1374 c.c.), nel contratto individuale di lavoro l’obbligo dell’imprenditore di adottare tutte le cautele necessarie a preservare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore, tenuto conto della concreta realtà aziendale, della particolarità dell’impiego e della possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Dal principio di contrattualità deriva che, nella domanda di risarcimento del danno per infortunio sul lavoro, il riparto degli oneri probatori si pone nei medesimi termini dell’art. 1218 c.c. relativamente all’inadempimento delle obbligazioni, sicché il lavoratore, creditore dell’obbligo di sicurezza, non è tenuto a fornire prova della colpa dell’imprenditore ma deve comunque allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale, le regole di comportamento che si assumono violate e il nesso di causalità tra questi elementi (Cass. n. 28516/2019, con nota in q. sito di S. GIOIA).

Tuttavia, laddove la concreta situazione fattuale descritta dal prestatore, sulla base della quale questi assume la violazione delle misure di sicurezza, sia tale da consentire in maniera agevole l’individuazione delle condotte che astrattamente potevano pretendersi dal datore di lavoro o anche, specularmente, di escludere in radice la sussistenza di un tale obbligo, “non vi è ragione di gravare il lavoratore di un onere di allegazione che nel contesto descritto finirebbe per assumere un rilievo meramente formalistico, in contrasto con la esigenza di effettività di tutela e con la stessa natura primaria degli interessi coinvolti” (Cass. n. 29909/2021).

Solo quando il prestatore abbia fornito prova delle circostanze soprarichiamate, sorge per l’imprenditore l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per adempiere o che “l’impossibilità della prestazione alla quale è tenuto o la non esatta esecuzione della stessa derivano da causa a lui non imputabile”.

Nel caso di specie, la Cassazione ha cassato, con rinvio ad altro giudice in diversa composizione, la pronuncia di merito per aver fatto errata applicazione dei principi soprarichiamati, precisando che la Corte d’Appello nel pretendere che fosse la dipendente “a provare le condizioni della porta e le ragioni per le quali la stessa aveva attinto la lavoratrice, ha finito per addossare a quest’ultima l’onere di dimostrare la colpa del datore”, quando, invece, emersa dalla dinamica dell’infortunio l’obiettiva insicurezza del luogo di impiego, era l’imprenditore a dover provare di avere correttamente predisposto tutte le misure di sicurezza o che l’evento dannoso si era verificato per causa a lui non imputabile.

Infortunio sul lavoro: risarcimento del danno e onere della prova
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