Una volta provato il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso.

Nota a Cass. 18 agosto 2023, n. 24804

Valerio Di Bello

La vicenda oggetto della sentenza della Cassazione 18 agosto 2023, n, 24804 concerne il ricorso di una lavoratrice contro la decisione della Corte di Appello di Lecce volto ad ottenere la condanna della datrice di lavoro Azienda Sanitaria Locale al risarcimento dei danni asseritamente subiti per essere stata assegnata allo svolgimento di mansioni usuranti e comunque incompatibili con il suo stato di portatrice di protesi all’anca sinistra.

Nello specifico, la ricorrente ha contestato la decisione della Corte di merito nella parte in cui ha negato la sussistenza (della prova) del nesso causale tra inadempimento all’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica della sua dipendente e il pregiudizio alla salute da questa subito in esito all’intervento di sostituzione della protesi all’anca.

La Cassazione, nell’accogliere parzialmente il ricorso, premette, in linea con la giurisprudenza consolidata, che:

1) “il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso” (v. Cass. n. 6008/2023, annotata in q. sito da P. COTI, e n. 34968/2022, in q. sito con nota di F. DURVAL);

2) una volta provato tale nesso causale, “grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso” (v. Cass. n. 20889/2018 e Cass. n. 17017/2007);

3) poiché, nel caso di specie, l’inesatto adempimento datoriale è consistito nell’avere adibito la lavoratrice a mansioni incompatibili con le sue particolari condizioni di salute, il datore di lavoro (su cui ricade una responsabilità non oggettiva) è tenuto a provare che il danno – pur eziologicamente riconducibile alla prestazione di lavoro – “è stato determinato da impossibilità della [esatta] prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (art. 1218 c.c.).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 agosto 2023, n. 24804

Lavoro – Mansioni o usuranti – Integrità fisica – Equo indennizzo – Prestazione lavorativa – Danno alla salute – Accoglimento

Fatti di causa

La Corte d’Appello di Lecce, in riforma della sentenza del tribunale della medesima città, respinse la domanda dell’attuale ricorrente volta ad ottenere la condanna della datrice di lavoro Azienda Sanitaria Locale al risarcimento dei danni asseritamente subiti per essere stata assegnata allo svolgimento di mansioni o usuranti e comunque incompatibili con il suo stato di portatrice di protesi all’anca sinistra.

Contro tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. L’Azienda Sanitaria Locale (…) di ha presentato controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data inizialmente fissata per la trattazione in camera di consiglio davanti all’apposita sezione indicata nell’art. 376, comma 1, c.p.c.

Con ordinanza interlocutoria depositata il 17.2.2023, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza ai sensi dell’art. 380-bis, comma 3, c.p.c. Il Pubblico Ministero ha depositato le proprie conclusioni scritte per l’accoglimento del ricorso «nei limiti di cui in motivazione». Le parti private hanno depositato note difensive ad ulteriore illustrazione delle rispettive posizioni in vista della pubblica udienza, nella quale non sono intervenute.

Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo di ricorso si denuncia «nullità della sentenza ex art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c.».

La ricorrente si lamenta che la corte territoriale abbia disatteso la sua preliminare eccezione di inammissibilità dell’appello per la mancata indicazione delle parti della sentenza di primo grado che si intendevano impugnare, delle modifiche richieste alla sentenza impugnata, nonché delle circostanze da cui derivava la violazione di legge e della rilevanza di tali circostanze rispetto alla decisione adottata.

1.1. Il motivo è inammissibile, perché privo di una concreta illustrazione a sostegno dell’affermata indeterminatezza dell’appello. Alla trascrizione integrale del contenuto dell’atto d’appello (…) segue la breve e apodittica affermazione che «l’appellante non ha affatto indicato, specificamente, le parti del provvedimento che intendeva impugnare. Né ha provveduto ad indicare le modifiche richieste o le circostanze da cui derivava la lamentata violazione della legge, omettendo, inoltre, di precisare se le stesse assumessero rilevanza ai fini della decisione impugnata».

La corte d’appello, da parte sua, ha considerato e respinto l’eccezione, rilevando che il ricorso in appello aveva descritto «gli elementi caratterizzanti la fattispecie … erroneamente esaminati dal giudice del pregresso grado» che, «se esaminati in maniera opportuna e non viziata da errore, avrebbero condotto a ben altro esito di giudizio». Del resto, la questione sollevata dall’appellante era quella del nesso causale tra inadempimento del datore di lavoro e danno alla salute della lavoratrice, con evidente, quand’anche implicita, rilevanza ai fini della decisione della lite. Si può quindi soltanto supporre, in mancanza di qualsiasi esplicitazione dell’attuale ricorrente, che l’eccezione di inammissibilità d’appello – così come, ora, il relativo motivo di ricorso – sottintenda un’interpretazione troppo formalistica dei requisiti di contenuto richiesti dall’art. 342, comma 1, c.p.c. (e dal corrispondente art. 434, comma 1, c.p.c., per quanto riguarda il rito del lavoro).

2. Il secondo motivo di ricorso censura, testualmente, la «nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2087, 1218 e 2043 c.c., art. 441 c.p.c., 2909 e 2697 c.c., legge n. 68 del 1998 art. 10, art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 4, per mancanza di motivazione, perplessa ed incomprensibile, contraddittoria, art. 360 c.p.c., comma 1, n 5 per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti».

Al di là dei riferimenti normativi pletorici e parzialmente errati, la ricorrente, con questo motivo, contesta la decisione della corte d’appello nella parte in cui ha negato la sussistenza (della prova) del nesso causale tra inadempimento all’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica della sua dipendente e il pregiudizio alla salute da questa subito in esito all’intervento di sostituzione della protesi all’anca.

2.1. Il motivo è fondato, nei termini qui di seguito precisati.

2.1.1. Dalla sentenza impugnata (oltre che dalla pacifica allegazione di entrambe le parti) emerge che la ricorrente ottenne dalla stessa Corte d’Appello di Lecce, in un precedente processo, il riconoscimento della causa di servizio e del diritto al pagamento del relativo equo indennizzo. Non è dunque in discussione, anche perché coperto da giudicato, il nesso causale tra la prestazione lavorativa svolta dalla ricorrente e il danno alla salute da lei sofferto, come determinato in primo grado dal c.t.u. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato il nesso causale sulla base del rilievo che «l’impianto protesico, inserito nel 1982 …, aveva avuto una sopravvivenza di 24 anni … e dunque superiore alla sopravvivenza massima stimata per gli impianti risalenti a quegli anni», sicché – sempre secondo la relazione del c.t.u., per come riportata nella sentenza qui impugnata – «non è possibile stabilire quanto possa avere inciso il maggior uso dell’arto per l’impegno lavorativo …

atteso che in quel momento la sopravvivenza della protesi era già ampiamente oltre il limite massimo all’epoca attendibile».

Tale conclusione del c.t.u. – disattesa dal giudice di primo grado, in dichiarato ossequio al vincolo del giudicato derivante dalla sentenza sulla causa di servizio – è stata recuperata e fatta propria dalla corte d’appello, che ha ritenuto di dovere distinguere in base alla diversa causa petendi dell’azione risarcitoria, il nesso causale tra prestazione lavorativa e danno (coperto dal giudicato) e il nesso causale tra inadempimento del datore di lavoro e danno (non coperto da giudicato).

2.1.2. Il ragionamento della corte d’appello non può essere condiviso.

Sul piano della coerenza interna, l’affermazione di volere rispettare il giudicato sul nesso causale tra prestazione lavorativa e danno non è compatibile con la valorizzazione dell’opinione del c.t.u. che, per come motivata, implica necessariamente la negazione di quel nesso causale. Infatti, attribuire alla sola vetustà della protesi (superiore al limite massimo attendibile già prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro) la probabile causa della necessità di sostituirla significa negare qualsiasi nesso tra prestazione lavorativa e intervento di sostituzione; sicché tale vetustà non può essere utilizzata per negare il solo nesso causale tra inadempimento e danno, senza violare nel contempo il vincolo derivante dal giudicato sul nesso causale tra prestazione lavorativa e danno.

Sul piano più strettamente giuridico, si deve ribadire che «il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso» (v. Cass. n. 6008/2023; conformi Cass. nn. 34968/2022; 23187/2022). Una volta provato tale nesso causale, «grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso» (Cass. n. 20889/18; conf. Cass. n. 17017/07; Cass. n. 4005/05).

Nel caso di specie, (…) di (…) non risulta avere nemmeno allegato di avere adottato cautele volte a impedire il verificarsi dell’evento dannoso il cui nesso causale con la prestazione lavorativa non è (e non può essere) in discussione, né risulta avere prospettato in alcun modo l’impossibilità di adottare cautele adeguate. In particolare, dato che alcune mansioni tipiche dell’inquadramento come ausiliaria erano incompatibili con la condizione di portatrice di protesi all’anca (come tale rientrante nelle categorie protette), l’Azienda Sanitaria avrebbe dovuto prospettare (e dimostrare) l’impossibilità di assegnare la lavoratrice a mansioni diverse, diversa assegnazione che risulta essere poi avvenuta, ma solo dopo l’intervento di sostituzione della protesi.

In definitiva, se è pur vero che ai fini del riconoscimento della causa di servizio è sufficiente il solo nesso causale tra prestazione lavorativa e danno, mentre nella causa di risarcimento del danno viene in rilievo anche il comportamento, commissivo od omissivo, del datore di lavoro, da valutare in termini di inadempimento dell’obbligo contrattuale di tutelare l’integrità fisica del lavoratore, è anche vero che, nel caso di specie, l’inadempimento (più precisamente, il non esatto adempimento) del datore di lavoro non viene messo in dubbio nella sentenza impugnata ed è consistito nell’avere adibito la lavoratrice a mansioni incompatibili con le sue particolari condizioni di salute. Gravava pertanto sul datore di lavoro l’onere di provare che il danno – pur eziologicamente riconducibile alla prestazione di lavoro – «è stato determinato da impossibilità della [esatta] prestazione derivante da causa a lui non imputabile» (art. 1218 c.c.). A tale conclusione si giunge applicando il principio generale in materia di ripartizione degli oneri probatori nelle cause di risarcimento danni da inadempimento contrattuale – che non soffre eccezione nel caso della responsabilità per violazione dell’obbligo posto a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. (v., per tutte, la già citata Cass. n. 34968/2022) e non certo configurando tale ultima responsabilità in termini di responsabilità oggettiva, come paventato nella sentenza impugnata.

3. Il terzo motivo di ricorso denuncia «nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 346, 115, 421 e 437 c.p.c., nonché ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 4, c.p.c. per mancanza di motivazione, perplessa ed incomprensibile, contraddittoria, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti».

3.1. Il motivo, che è volto a criticare quella parte della motivazione della sentenza impugnata in cui la corte d’appello rileva che la lavoratrice non avrebbe formulato censure alle motivazioni del c.t.u., rimane assorbito per effetto dell’accoglimento del motivo precedente, che rende irrilevante l’opinione del c.t.u. resa in evidente contraddizione con il giudicato sul nesso causale tra prestazione lavorativa e danno alla salute.

4. Infine, con il quarto motivo la ricorrente denuncia «nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., 324 c.p.c. ex art. 360, comma 1, n. 4 e 5, c.p.c.».

Si sostiene che la corte d’appello avrebbe dovuto rilevare il giudicato interno sull’accertamento dell’inadempimento della datrice di lavoro e sul nesso causale tra questo e il danno alla salute, desunto dal fatto che l’atto d’appello – essendosi concentrato solo sulle risultanze della c.t.u. – non avrebbe censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva fondato la propria decisione anche sulle deposizioni dei testi.

4.1. Il motivo è inammissibile.

È fin troppo evidente che oggetto dell’impugnazione da parte dell’Azienda Sanitaria era (e non poteva che essere) del diritto al risarcimento del danno (con la relativa condanna mediante la contestazione dei relativi presupposti di fatto e di diritto. La circostanza che la motivazione a sostegno dell’appello si sia concentrata solo su alcuni aspetti dell’istruttoria svolta in primo grado avrebbe potuto rilevare ai fini del giudizio sulla fondatezza o meno dell’appello (essendo infondato l’appello se il giudice di secondo grado ritenga l’esito delle prove non contestate da solo sufficiente a provare i fatti posti a fondamento della domanda); ma non può certo ipotizzarsi un giudicato interno sull’esito e sulla valutazione di un singolo mezzo istruttorio diretto a provare un fatto di cui l’appellante contesti, in qualsiasi modo, l’accertamento.

5. Accolto il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo e dichiarati inammissibili il primo e il quarto, la sentenza impugnata n deve essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Lecce, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.

6. Si dà atto che, visto l’accoglimento del ricorso, non sussistono i presupposti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, assorbito il terzo motivo e dichiarati inammissibili il primo e il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Lecce, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Mansioni usuranti e danno alla salute
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