Il contratto collettivo può essere giudizialmente disapplicato se non garantisce una retribuzione “proporzionata” e “sufficiente”.

Nota a Cass. 10 ottobre 2023, n. 28321

Fabrizio Girolami

Il lavoratore può invocare un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non tanto per ottenerne l’applicazione, bensì come termine di riferimento per la determinazione della “giusta retribuzione” ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto di lavoro.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con sentenza 10 ottobre 2023, n. 28321, con riferimento a una controversia instaurata da due lavoratrici in servizio a tempo pieno e indeterminato presso C.I.V.I.S. (Centro Italiano di Vigilanza Interna e Stradale) S.p.A., con mansioni di portierato e inquadrate nel livello D del c.c.n.l. per i dipendenti di istituti e imprese di vigilanza privata. Le lavoratrici avevano agito in giudizio chiedendo la nullità dell’art. 23 del c.c.n.l. per i dipendenti da istituti e imprese di vigilanza privata e l’accertamento del diritto a una retribuzione mensile lorda pari a quella riconosciuta per dipendenti svolgenti le loro medesime mansioni dal c.c.n.l. Multiservizi, nonché la condanna di C.I.V.I.S. S.p.A. al pagamento delle conseguenti differenze retributive.

All’esito del giudizio di merito, la Corte d’Appello di Milano aveva accertato il diritto delle lavoratrici a percepire un trattamento salariale non inferiore a quello previsto dal c.c.n.l. per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi per i lavoratori di 2° livello e, per l’effetto, condannando la società a corrispondere le relative differenze retributive.

Nel successivo giudizio di legittimità, la Cassazione ha rigettato il ricorso della società, confermando la sentenza impugnata. Nello specifico, il giudice di legittimità ha affermato, tra l’altro, quanto segue:

  • l’art. 36, co. 1, Cost., garantisce “due diritti distinti” che “si integrano a vicenda”: quello a una retribuzione “proporzionata” garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata”; quello a una retribuzione “sufficiente” dà diritto a “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo”, ovvero a “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In altre parole, l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto”;
  • l’art. 36 Cost. prevede il “salario minimo costituzionale”, disponendo che la retribuzione deve “rispondere a due fondamentali e diverse esigenze” (l’una si ricollega al rapporto di scambio tra prestatore d’opera e datore di lavoro, considerando la prestazione di lavoro nella sua consistenza quantitativa e qualitativa; l’altra si riferisce alla “situazione familiare del lavoratore”);
  • il giudice deve garantire il rispetto dello statuto del salario delineato a livello costituzionale e, in caso di violazione, è tenuto a ripristinare la regola violata, dichiarando la nullità della clausola contrattuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche di cui all’art. 2099, co. 2, c.c. e art. 1419, co. 1, c.c.);
  • in questa prospettiva, il lavoratore può invocare il diritto di “uscire” dal salario contrattuale della categoria di appartenenza, laddove il livello salariale applicato sia giudicato insufficiente in base all’art. 36 Cost., e chiedere l’applicazione della retribuzione minima prevista da altro diverso contratto collettivo. Infatti, stante la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi “sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione con norma precettiva di rango sovraordinato”.

Sentenza

Corte di Cassazione 10 ottobre 2023, n. 28321

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- (OMISSIS) e (OMISSIS) esponevano di essere dipendenti full time a tempo indeterminato di (OMISSIS) spa dall'(OMISSIS) a seguito di cambio appalto, con mansioni di portierato, nonché di essere inquadrate nel livello D ccnl per i dipendenti di istituti ed imprese di vigilanza privata servizi fiduciari.

Assumevano che la loro retribuzione tabellare lorda non era conforme ai principi di cui all’articolo 36 Cost..

Chiedevano pertanto al Tribunale di Milano, previa declaratoria di nullità dell’articolo 23 sezione servizi fiduciari del CCNL per i dipendenti da istituti ed imprese di vigilanza privata, l’accertamento del loro diritto ad una retribuzione mensile lorda pari a quella riconosciuta per dipendenti svolgenti le loro medesime mansioni dal CCNL Multiservizi – II livello, o in subordine, dal CCNL terziario – livello IV, o, in ulteriore subordine, dal CCNL dipendenti da proprietari di fabbricati – categoria D1, nonché la condanna di (OMISSIS) spa al pagamento delle conseguenti differenze retributive.

2.- Il Tribunale di Milano rigettava le domande.

3.- La Corte d’Appello, con la sentenza in epigrafe, in accoglimento del gravame interposto dalle lavoratrici, dichiarava il loro diritto ad un trattamento salariale non inferiore a quello previsto dal CCNL dipendenti da imprese esercenti servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi per i lavoratori inquadrati nel II livello e condannava (OMISSIS) spa a pagare le conseguenti differenze retributive, quantificate in Euro 12.742,18 per la (OMISSIS) ed in Euro 12.757,18 per la (OMISSIS).

Per quanto rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) da tempo in dottrina e giurisprudenza si riconosce immediata portata precettiva all’articolo 36 Cost., con forza imperativa; a tal fine i minimi tabellari previsti dal contratto collettivo sono assistiti da una presunzione iuris tantum di adeguatezza della retribuzione;

b) nella verifica della retribuzione proporzionata e sufficiente il giudice non può applicare l’intero contratto collettivo, ma deve prendere in considerazione solo quegli istituti che costituiscono il c.d. minimo costituzionale, dal quale sono escluse le voci tipicamente contrattuali come i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità e la 14 mensilità (Cass. n. 1756/2021);

c) non esiste un principio di parità di trattamento in materia;

d) in giurisprudenza il criterio della proporzionalità è stato ritenuto prioritario rispetto a quello della sufficienza, atteso che quest’ultimo ha carattere sussidiario e potrebbe giustificare una revisione (in melius) del compenso in considerazione della situazione familiare del dipendente, fermo restando che a ciò provvede tipicamente l’istituto previdenziale degli assegni familiari; resta altresì fermo che giammai una retribuzione non proporzionata possa essere ritenuta congrua per la particolare situazione familiare del lavoratore (Cass. n. 7324/1983);

e) questa elaborazione giurisprudenziale è andata in crisi con la rottura dell’unità sindacale e con i fenomeni di dumping sociale legati alla concorrenza fra le varie organizzazioni sindacali e ai cc.dd. accordi pirata, nonché alla proliferazione dei contratti collettivi nell’ambito della medesima categoria;

f) ciò determina non solo notevoli difficoltà nella selezione del ccnl applicabile ai sensi dell’articolo 36 Cost., ma, specie in settori ad alta densità di manodopera (istituti di vigilanza, logistica, portinai di stabili) gli stessi contratti collettivi, stipulati da organizzazioni sindacali sicuramente rappresentative, prevedono minimi salariali particolarmente bassi;

g) in tale contesto sono aumentati gli interventi giurisprudenziali che, riaffermando la non vincolatività dei parametri desumibili dal contratto collettivo, ritengono questa volta prevalente il criterio della sufficienza rispetto a quello della proporzionalità;

h) in tal senso la Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 2245/2006; Cass. n. 546/2021) afferma che ove la retribuzione prevista dal ccnl risulti inferiore alla soglia minima della sufficienza, essa è nulla e, in applicazione del principio di conservazione di cui all’articolo 1419 c.c., comma 2, il giudice adegua la retribuzione ex articolo 36 Cost., secondo un potere discrezionale, da usare con massima prudenza e adeguata motivazione;

i) ne consegue che, diversamente da quanto sostenuto da (OMISSIS) spa, il fatto che la retribuzione corrisposta alle appellanti sia prevista da un CCNL (servizi fiduciari), sottoscritto da organizzazioni sindacali e datoriali di cui non è contestata la rappresentatività, non è di per sé sufficiente a far ritenere la misura della retribuzione ex se conforme all’articolo 36 Cost., e quindi non preclude il sindacato giurisdizionale ed eventualmente la declaratoria di nullità della clausola collettiva se in contrasto con la norma costituzionale;

j) nel caso di specie l’articolo 23 CCNL applicato deve essere dichiarato nullo per contrasto con l’articolo 36 Cost., sulla base delle seguenti ragioni;

k) è pacifico che le appellanti percepiscono da (OMISSIS) spa una retribuzione lorda annua di Euro 12.090,00, pari alla somma mensile di Euro 930,00;

l) tale retribuzione non risulta né proporzionata, né sufficiente;

m) in primo luogo è significativo che gli altri CCNL astrattamente applicabili (multiservizi, proprietari di fabbricati, commercio), sottoscritti da organizzazioni sindacali parimenti rappresentative, contemplanti mansioni sovrapponibili a quelle svolte dalle appellanti, garantiscano ai lavoratori a tempo pieno, di pari anzianità e adibiti alle medesime mansioni, una retribuzione significativamente superiore a quella in concreto percepita dalle appellanti;

n) il richiamo ad altri CCNL non ha la funzione di affermare un principio di parità’ di trattamento, ma serve solo a verificare l’adeguatezza retributiva e a far cadere la presunzione di conformità all’articolo 36 Cost.;

o) nel caso di specie rispetto alla retribuzione prevista dal CCNL multiservizi per mansioni di portierato e di guardiania – II livello, pari alla somma lorda annua di Euro 17.330,46, la retribuzione annua lorda percepita dalle appellanti è inferiore del 30,24%;

p) rispetto alla retribuzione prevista dal CCNL proprietari di fabbricati per mansioni di vigilanza e controllo degli accessi – livello D1, pari alla somma lorda annua di Euro 16.599,05, la retribuzione annua lorda percepita dalle appellanti è inferiore del 27,16%;

q) rispetto alla retribuzione prevista dal CCNL terziario per mansioni di guardiano, custode e portiere – VI livello, pari alla somma lorda annua di Euro 18.959,64, la retribuzione annua lorda percepita dalle appellanti è inferiore del 36,24%;

r) dunque il fatto che i rappresentanti delle medesime organizzazioni sindacali, nell’ambito di vari altri contratti collettivi, abbiano ritenuto proporzionata alla medesima quantità e qualità di lavoro una retribuzione nettamente superiore, grava la retribuzione prevista dal CCNL servizi fiduciari di una presunzione contraria, ossia di non conformità all’articolo 36 Cost.;

s) in tale verifica del tutto irrilevante è il divisore orario e la conseguente determinazione della retribuzione oraria, perché occorre considerare che, essendo impiegate a tempo pieno presso (OMISSIS) spa, le appellanti non hanno la possibilità di integrare il loro reddito svolgendo altre attività lavorative;

t) ai fini della predetta verifica non può farsi riferimento a tutti gli elementi e gli istituti retributivi, dovendo essere presi in considerazione solo quelli che costituiscono il c.d. minimo costituzionale, integrati dall’anzianità di servizio acquisita, atteso che la prestazione di lavoro di norma migliora qualitativamente per effetto dell’esperienza ( n. 18584/2008; Cass. n. 17399/2011); nel caso di specie occorre quindi utilizzare come parametro il CCNL multiservizi per i lavoratori di II livello, ossia con un’anzianità di servizio di almeno nove mesi, come le appellanti;

u) non possono essere presi in considerazione altri contratti collettivi, indicati da (OMISSIS) spa, in quanto stipulati da organizzazioni sindacali che non sono fra quelle maggiormente rappresentative;

v) il mancato riconoscimento della voce retributiva “conto futuro aumento”, previsto dall’articolo 27 CCNL servizi fiduciari, interpretato da (OMISSIS) spa nel senso della non applicabilità al caso in esame, ha contribuito alla violazione dell’articolo 36 Cost.;

w) la carenza del requisito di proporzionalità è già di per sé sufficiente a giustificare la declaratoria di nullità dell’articolo 23 CCNL servizi fiduciari, come già affermato da C Appello Milano n. 1885/2017, confermata da  06/12/2021 n. 38666;

x) difetta anche il requisito della sufficienza, perché applicando l’aliquota contributiva del 9,19% e quella fiscale del 23%, si perviene ad una retribuzione mensile netta di Euro 650,29, inferiore alla soglia di povertà individuata dall’ISTAT per l’anno 2015 nel reddito mensile disponibile di Euro 819,13;

y) la conclusione non muta anche se vengono utilizzati altri parametri, come ad esempio il reddito di cittadinanza, il cui importo mensile raggiunge la somma di Euro 780,00, oppure l’offerta “congrua” di lavoro prevista dal Decreto Legge n. 4 del 2019, articolo 4, comma 9 bis, conv. in L. n. 26 del 2019, che fa riferimento a criteri retributivi che portano alla somma mensile di Euro 858,00;

z) è infondata l’eccezione sollevata da (OMISSIS) spa, secondo cui questa operazione giudiziale si tradurrebbe nella violazione del principio di libertà sindacale di cui all’articolo 39 Cost., in quanto l’eventuale nullità colpisce solo la clausola collettiva retributiva relativa al trattamento economico e, per il principio di conservazione degli atti giuridici, lascia fermo tutta la residua parte del CCNL regolatrice del rapporto di lavoro;

aa) nella determinazione della retribuzione ex articolo 36 Cost., la scelta del CCNL multiservizi per i lavoratori del II livello (invece che del CCNL proprietari fabbricati o CCNL terziario) è quella più ragionevole, perché è quella minore e quindi che meno si discosta dagli importi previsti dal CCNL servizi fiduciari;

bb) il dovuto va determinato secondo i conteggi delle lavoratrici, non specificamente contestati;

cc) ogni ulteriore profilo resta assorbito.

4.- Avverso tale sentenza (OMISSIS) spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi.

5.- (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno resistito con controricorso.

6.- (OMISSIS) spa ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione degli articoli 36, 39, 4, 111 Cost., articoli 2070, 2077, 2099 c.c., per avere la Corte territoriale omesso di tenere conto del fatto che essa società ha pacificamente retribuito i dipendenti secondo quanto previsto dal CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (CGIL e CISL) e coerente con il settore merceologico in cui opera, ossia quello dei servizi di portierato/reception svolti per conto di terzi.

Assume che non è possibile utilizzare altri e diversi contratti collettivi, atteso che ad esempio quello Multiservizi, all’articolo 1, relativo alla sua sfera di applicazione, prevede testualmente che “Sono… escluse dalla sfera di applicazione del contratto le eventuali autonome attività, anche per specifici contratti di committenza, ai rapporti di lavoro delle quali si applichino, secondo la vigente normativa, autonomi e specifici cc.cc.nn.ll. corrispondenti”.

Deduce che l’articolo 36 Cost., è invocabile solo “per i rapporti non tutelati da contratto collettivo”, perché altrimenti deve ritenersi conforme a costituzione quel trattamento retributivo previsto dallo specifico contratto collettivo, come nel caso in esame. In tal modo – sostiene – viene altresì garantita l’autonomia delle parti sociali e, in ultima analisi, il principio dell’autonomia sindacale ex articolo 39 Cost..

Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato in relazione alle censure specificamente articolate.

1.1. Il motivo è inammissibile in relazione agli invocati articoli 4 e 111 Cost., nonché agli articoli 2070, 2077, 2099 c.c., rispetto ai quali non è stata articolata alcuna censura, né è stata specificata in cosa si sarebbe sostanziata la prospettata “violazione” o “falsa applicazione”.

1.2. Con riguardo, invece, alle censure specificate va evidenziato che, in primo luogo, contrariamente all’assunto della ricorrente, la Corte territoriale ha esaminato la circostanza dedotta (applicazione del ccnl servizi fiduciari) e l’ha espressamente ritenuta inidonea ad impedire la verifica di proporzionalità e di sufficienza retributiva ex articolo 36 Cost.. All’uopo ha utilizzato ulteriori parametri – le relazioni annuali ISTAT sulla povertà e i contratti collettivi relativi a settori analoghi o affini – dai quali è emersa in modo manifesto la violazione del precetto costituzionale.

Restringere la portata precettiva dell’articolo 36 Cost., ai soli rapporti di lavoro non tutelati dal contratto collettivo, come pretende la società ricorrente, è un’interpretazione non condivisibile, perché non giustificata dal dato normativo. Anzi, la verifica giudiziale si impone proprio qualora – come nel caso in esame – risulti che il trattamento economico previsto dalle parti sociali sia appena sopra la soglia di povertà accertata da un ente pubblico non economico come l’ISTAT.

Tale potere di accertamento giudiziale è stato affermato da questa Corte anche con riguardo al contratto collettivo (Cass. n. 2245/2006, ricordata pure dalla società ricorrente: v. ricorso, pp. 33-34; Cass. ord. n. 546/2021).

1.3. Nell’ambito di tale accertamento va tenuto conto del fatto che il valore soglia di povertà assoluta viene calcolato ogni anno dall’Istat relativamente ad un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell’età, dell’area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia. Invece i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa; orientando il trattamento economico non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più, che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all’interno dell’Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”).

Pertanto, nell’ambito dell’operazione di raffronto tra il salario di fatto e salario costituzionale il giudice è tenuto ad effettuare una valutazione coerente e funzionale allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità. A tal fine non potrà perciò assumere a riferimento la retribuzione lorda (che non si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l’indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali). Il livello Istat di povertà non costituisce peraltro un parametro diretto di determinazione della retribuzione sufficiente; può però aiutare ad individuare, sotto il profilo della sufficienza, una soglia minima invalicabile. Ma di per sé non è indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo inoltre rispettare l’altro profilo della proporzionalità con la quantità e qualità del lavoro svolto.

1.4. Secondo quanto affermato da questa Corte (Cass. n. 24449/2016) l’articolo 36 Cost., comma 1, garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, “nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda”: quello ad una retribuzione “proporzionata” garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata”; quello ad una retribuzione “sufficiente” dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo”, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In altre parole, l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto”.

1.5. Il giudice, pertanto, non può sottrarsi ad alcuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici per determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.

1.6. In nessun caso la verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, anche attraverso la considerazione del livello Istat di povertà assoluta, può esaurire l’oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell’articolo 36 Cost.. Essa deve condurre sempre alla determinazione del quantum del salario costituzionale (pars costruens), operazione che l’univoca giurisprudenza di questa Corte e lo stesso ordinamento (in alcune disposizioni di legge) vuole improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva (v. Cass.17/05/2003 n. 7752, Cass. 08/01/2002 n. 132, Cass. 09/03/2005 n. 5139, Cass. 01/02/2006 n. 2245), ritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità. Ma è pur sempre fatto salvo, oltre ad eventuali disposizioni di legge, l’intervento correttivo del giudice sulla stessa contrattazione collettiva a tutela della precettività dell’articolo 36 Cost..

1.7. Quanto ai poteri demandati al giudice nella materia, in virtu’ della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai requisiti indicati dall’articolo 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’articolo 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità, che rappresentano l’oggetto dell’accertamento giudiziale. Al lavoratore spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002).

Anche quando chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali, il lavoratore è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto, dovendo in mancanza presumersi adeguata e sufficiente la retribuzione corrisposta nella misura prevista – in relazione alle mansioni esercitate – dal contratto collettivo del settore (Cass. n. 11881/1990, Cass. n. 163/1986, Cass. n. 4096/1986, Cass. n. 7563/1987). Inoltre, la violazione dell’articolo 36 Cost., è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo, potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore presenti caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non può escludersi che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979; sul punto già Cass. n. 1255/1976 e Cass. n. 2380/1972).

1.8. Il compito del giudice non subisce alterazione, rispetto al principio dispositivo della domanda, neanche quando il lavoratore – che deduca l’insufficienza del salario percepito, descriva il lavoro svolto e produca in giudizio le buste paga – si limiti ad indicare come termine di raffronto quello tra paga oraria percepita e retribuzione protetta a livello costituzionale, atteso che tale indicazione non modifica la natura della domanda svolta in giudizio, ne’ l’interesse di cui si chiede protezione, l’identificazione dei quali non richiede “formule sacramentali”. Vale il principio secondo cui “il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il petitum e la causa petendi” (tra le tante Cass. n. 3012/2010).

1.9. Sotto il profilo del quantum, è priva di fondamento la tesi secondo cui ai fini dell’articolo 36 Cost., bisogna prendere a riferimento il trattamento complessivo della retribuzione, comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario, in quanto riconosciuto dalla Corte Cost. n. 470/2002 e dalla sentenza di questa Corte n. 5934/2004. In realtà la sentenza n. 470/2002 la Corte Costituzionale si è occupata del diverso problema del quantum della singola componente retributiva, ossia della questione se, ai sensi dell’articolo 36 Cost., il lavoro straordinario debba essere necessariamente compensato con una maggiorazione di paga, per la penosità del lavoro svolto oltre l’orario normale di lavoro. In questo specifico contesto, nel negare tale copertura costituzionale, la Consulta ha riaffermato il principio secondo cui per giudicare della legittimità costituzionale della retribuzione bisogna fare riferimento al trattamento complessivamente percepito e non soffermarsi sull’entità del singolo emolumento. Ma non ha mai affermato che per giudicare della compatibilità all’articolo 36 Cost., del trattamento complessivo percepito dal lavoratore occorra tener conto anche del compenso per il lavoro straordinario. Il che andrebbe escluso in termini generali, sia perché si tratta di un emolumento eventuale e non ordinario; sia perché sarebbe incongruo affermarlo quante volte il lavoratore, proprio in ragione della esiguità di base del salario percepito, fosse costretto a svolgere molte ore di lavoro straordinario proprio per raggiungere la soglia minima di conformità richiesta dalla Costituzione.

1.10. Dalla giurisprudenza di questa Corte che si è via via pronunciata nella materia si desume inoltre che in sede di applicazione dell’articolo 36 Cost., il giudice di merito gode, ai sensi dell’articolo 2099 c.c., di un’ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli contrattual-collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’articolo 36 Cost..

1.11. Pertanto l’apprezzamento dell’adeguatezza della retribuzione in concreto resta riservato al giudice del merito (v. fra le altre Cass. n. 20216/2021, Cass. n. 19467/2007; Cass. n. 16866/2008 Cass. n. 3586/1985, Cass. n. 4326/1983, Cass. n. 1428/1981, Cass. n. 1926/1979). La sua determinazione, se effettuata nel rispetto dei criteri imposti dall’articolo 36 Cost., e con adeguata motivazione in ordine agli elementi utilizzati, non è censurabile in sede di legittimità neppure sotto il profilo del mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva (v. Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985).

1.12. Resta, peraltro, sempre valido il monito formulato dalla giurisprudenza di questa Corte (le già citate Cass. 01/02/2006, n. 2245 e Cass. 14/01/2021 n. 546) con cui si invita il giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare massima prudenza e adeguata motivazione, “giacche’ difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”.

Ciononostante, nella variegata casistica giurisprudenziale si registrano, alla luce dei fatti concreti, frequenti deviazioni dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, essendo sempre stato inteso, quello del riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria, come una facoltà piuttosto che un obbligo inderogabile per il giudice di merito, fatto salvo l’onere della motivazione conforme (Cass. n. 5519/2004). In tal senso si è infatti affermato che il giudice:

a) può individuare d’ufficio ( n. 7528/2010e Cass. n. 1393/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (anche in difformità dalla domanda), desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale, domandata in linea subordinata, non essendo in tale ipotesi configurabile alcuna violazione ne’ dell’articolo 112 c.p.c. (corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) né dell’ultima parte dell’articolo 420 c.p.c., comma 1 (in tema di possibilità di modificazione di domande, eccezioni o conclusioni) e del successivo articolo 421 c.p.c. (poteri istruttori del giudice);

b) quando escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato (di cui la controparte ha contestato l’applicabilità), può tuttavia desumere d’ufficio (Cass. n. 12271/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi processualcivilistici sopra richiamati;

c) può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex articolo 2070 c.c., e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario, deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto dal contratto collettivo applicato ( n. 7157/2003, Cass. sez. un. 2665/1997);

d) fatte salve contrarie disposizioni normative (per esempio ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. n. 19284/2017,  n. 2758/2006, Cass. n. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004).

1.13. Inoltre, il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985; più di recente Cass. n. 24449/2016). Più volte i giudici di merito hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. n. 14211/2001, Cass. n. 5519/2004, Cass. n. 27591/2005, Cass. n. 24092/2009, Cass. n. 3918/1982).

La stessa giurisprudenza di merito, oltre alla soglia di povertà calcolata dall’Istat, ha utilizzato come parametri di riferimento l’importo della NASPI o della CIG, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità e l’importo del reddito di cittadinanza; tutte forme di sostegno al reddito che fanno però riferimento a disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza, ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione nei termini prima indicati.

1.14. In virtu’ dell’integrazione del nostro ordinamento a livello Europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale.

1.15. A tal riguardo la recente Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea” – dei cui contenuti il giudice interno deve tenere conto, secondo le ripetute indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, anche prima della scadenza del recepimento (Corte di Giustizia, sentenza Adelener et al. causa C-212/04, sentenza Sorge causa C-98/09, sentenza Pfeiffer causa C-397/01 e C-403/01, obbligo che trova però i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di irretroattività e nel divieto di un’interpretazione contra legem del diritto nazionale; v. sentenza Sorge, cit., punto 52, e, per analogia, sentenza Adeneler et al., cit., punto 110) – convalida in più di una disposizione il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali.

Nel considerando n. 28 la Direttiva prevede allo scopo che “un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso” e aggiunge – quanto al livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato – che ” oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.

Nello stesso considerando n. 28 è inoltre previsto che, nella individuazione di parametri utili per determinare l’adeguatezza del salario, “la valutazione potrebbe inoltre basarsi su valori di riferimento associati a indicatori utilizzati a livello nazionale, come il confronto tra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere d’acquisto dei salari minimi”.

Ai fini dell’accertamento giudiziale ex articolo 36 Cost., possono venire in rilievo inoltre i criteri, menzionati nel considerando n. 28 (e richiamati anche nell’articolo 5 della direttiva), degli indicatori e dei valori di riferimento associati per orientare la valutazione degli Stati circa l’adeguatezza dei salari minimi legali (“Gli Stati membri potrebbero scegliere tra gli indicatori comunemente impiegati a livello internazionale e/o gli indicatori utilizzati a livello nazionale. La valutazione potrebbe basarsi su valori di riferimento comunemente impiegati a livello internazionale, quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50% o il 60% del salario netto medio”).

La citata Direttiva vuole conseguire gli obiettivi della dignità del lavoro, l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà, sicché la salvaguardia e l’adeguamento dei salari minimi “contribuiscono a sostenere la domanda interna”. Il primo obiettivo dichiarato della Direttiva è quello della “convergenza sociale verso l’alto” dei salari minimi (articolo 1, comma 1); si precisa che i minimi debbono essere “adeguati” per conseguire “condizioni di vita e di lavoro dignitose”. Lo scopo della Direttiva, dunque, è quello di ottenere un miglioramento dei minimi più bassi, perché si avvicinino ai più alti.

1.16. Nella recente ordinanza n. 17698/2022 questa Corte ha richiamato sia la previsione del salario minimo legale (suggerito dall’Organizzazione internazionale del lavoro – OIL, come politica per garantire una “giusta retribuzione”), sia le norme interne sul salario legale dettate per i soci lavoratori di cooperative attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa (L. n. 142 del 2001, articolo 3, comma 1 e Decreto Legge n. 48 del 2007, articolo 7, comma 4, convertito in L. n. 31 del 2008).

1.17. Già la Convenzione OIL n. 26 del 16/06/1928 prevede l’introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali “mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi” (articolo 1). Mentre la Convenzione OIL n. 131/1970 (pur non ratificata dall’Italia) impegna a stabilire un sistema di salari minimi che protegga tutti i gruppi di lavoratori dipendenti (articolo 1) e prevede che “I salari minimi devono avere forza di legge e non potranno essere abbassati” (articolo 2).

1.18. Altre disposizioni in materia sono dettate dall’articolo 4 della Carta sociale Europea e negli articoli 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ancora, il Pilastro Europeo dei Diritti sociali del 2017, nel punto 6, lettera a), prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso e la lettera b) impegna all’implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia.

1.19. Un altro criterio utile allo scopo si rivela l’individuazione percentuale del salario medio e/o mediano, che può essere individuato anche attraverso i dati Uniemens censiti dall’INPS (mentre sui c.d. working poors v. da ultimo XXII Rapporto INPS, pag. 99 e ss. presentato al Parlamento il 13 settembre 2023), suggerimento che il giudice interno puo’ dunque valorizzare ai fini della complessiva valutazione di conformità nei termini equitativi richiesti da questa giurisprudenza ex articolo 36 Cost..

1.20. Il confronto con l’articolo 36 Cost. richiede di individuare il concetto di salario proporzionato e sufficiente, evidenziando in premessa che la soluzione delle questioni sollevate non richiede di allontanarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale elaborato in materia di “equità salariale” dalla Corte Costituzionale e da questa Corte di legittimità.

1.21. Secondo quanto affermato in epoca risalente dalla Corte costituzionale quello al salario minimo costituzionale delineato nell’articolo 36 Cost., integra un diritto subiettivo perfetto (sentenza n. 30/1960), che “deve rispondere a due fondamentali e diverse esigenze” indicate dalla norma (Corte Cost. n. 74/1966 e C. Cost. n. 559/1987). La norma costituzionale non si limita a stabilire l’an del diritto al salario, ma attribuisce a chi lavora il diritto ad un salario con contenuti qualificanti, che si riferiscono al quantum del corrispettivo oggetto dell’obbligazione contrattuale.

Si tratta di indicazioni immediatamente precettive, idonee a conformare le clausole relative al corrispettivo del lavoro contenute all’interno di ciascun contratto di lavoro.

Tali indicazioni interpellano anzitutto gli agenti negoziali (associazioni sindacali e datoriali) in quanto massima autorità salariale. Si rivolgono inoltre al legislatore, chiamato a compiere scelte politiche di valorizzazione e di sostegno al reddito in funzione della promozione individuale e sociale dei lavoratori e delle indeclinabili esigenze familiari a cui lo stesso reddito deve far fronte.

In questo contesto il giudice è chiamato ad intervenire in ultima istanza, per assicurare, nell’ambito di ogni singolo rapporto oggetto di controversia, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello costituzionale ed in caso di violazione ripristinare la regola violata, dichiarando la nullità della clausola individuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche di cui all’articolo 2099 c.c., comma 2, e articolo 1419 c.c., comma 1).

1.22. Per ciò che riguarda, in particolare, l’opera compiuta in materia dalla giurisprudenza è noto che secondo un’elaborazione che dura oramai da oltre settanta anni (Cass. n. 1184/1951; Cass. n. 461/1952; Cass. n. 663/1958, Cass. n. 308/1962) questa Corte di legittimità ha affermato che il giudice chiamato ad adeguare – in base all’articolo 2099 c.c., comma 2 – il trattamento retributivo all’articolo 36 Cost., può fare riferimento – come parametri esterni per la determinazione del giusto corrispettivo – alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, i quali fissando standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, un’efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute.

1.23. Tutto questo avviene ovviamente nei limiti e con le difficoltà, le variabili e gli opportuni adattamenti di un’operazione di estensione di una regola generale all’interno di ogni concreta controversia individuale; attesa la carenza a tutt’oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora nel nostro Paese il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale all’infuori di una controversia processuale (o di un accertamento ispettivo).

1.24. Orbene, il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario. Attraverso questo sistema si è pure temperata, in mancanza dell’attuazione dell’articolo 39 Cost., la tesi espressa dalla già ricordata sentenza delle Sezioni Unite n. 2655/1997, secondo cui l’ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare. Pur esclusa l’applicabilità dell’articolo 2070 c.c., ai contratti collettivi di diritto comune, che vincolerebbe la regolamentazione collettiva all’area professionale di pertinenza, si è infatti ammesso comunque che il lavoratore possa invocare un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l’applicazione, bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione, deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto di lavoro (Cass. Sez. Un. 2665/1997; Cass. n. 7157/2003, Cass. n. 9964/2003, Cass. n. 26742/2014, Cass. n. 4951/2019).

1.25. L’oggetto dell’intervento giudiziale può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di “uscire” dal salario contrattuale della categoria di pertinenza. Infatti, per la cogenza dell’articolo 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione con norma precettiva di rango sovraordinato (in tema di “uscita” dal contratto nazionale di categoria v. Cass. n. 17698/2022, nonché, in una controversia analoga alla presente, con precipuo riferimento alla “uscita” dal CCNL Servizi fiduciari oggetto di questa pronuncia, Cass. n. 20216/2021).

1.26. Quello appena richiamato integra un orientamento già consolidato a cui questo Collegio intende dare continuità, in quanto conforme alle regole ed allo spirito della Costituzione, ed a cui occorre apportare solo alcune limitate precisazioni per fugare taluni dubbi, a fronte della realtà di fatto determinatasi negli ultimi tempi, in cui si colloca la questione della sindacabilità del contratto collettivo nazionale di categoria sottoscritto da OO.SS. maggiormente rappresentative, che è oggetto della controversia. Si tratta di una realtà che è stata posta più volte all’attenzione della magistratura del lavoro, della magistratura amministrativa e persino della magistratura penale, chiamate ad interloquire in diverso modo sulla misura dei salari fissati in sede collettiva, anche ad opera di organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Ciò ha creato una rinnovata attenzione dialettica sul tema anche da parte della dottrina, sollecitata da ultimo dall’intervento della Direttiva sopra richiamata in materia di salari adeguati all’interno dell’Unione Europea, n. 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

1.27. Diverse questioni vengano dibattute in questo contesto: a) la frammentazione della rappresentanza e la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di “contratti pirata”); b) la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie; c) la conseguente proliferazione del numero dei CCNL (il CNEL ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbe stato stipulato da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti); d) la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro ed la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi; e) il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi, la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai mutamenti economici (l’ultimo Report del CNEL denuncia come scaduti 563 contratti del settore privato, pari al 60%); f) una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari.

Si parla notoriamente di “lavoro povero”, ovvero di “povertà nonostante il lavoro”, principalmente dovuto, come si è detto, alla concorrenza salariale “al ribasso” innescata dai fattori suindicati, in particolare dalla molteplicità dei contratti all’interno della stessa contrattazione collettiva. Questa, pur necessaria perché espressione della libertà sindacale e funzionale alla tutela dei diritti collettivi dei lavoratori, può entrare in tensione con il principio dell’articolo 36 Cost., che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro.

Naturalmente pur in questo contesto va sempre tenuto presente il monito (Cass. 01/02/2006, n. 2245, Cass. 14/01/2021 n. 546 più volte ricordate) secondo cui il giudice deve sempre operare “con grande prudenza e rispetto”, attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale, quale principio garantito dalla Costituzione e anche dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (v. spec. Corte EDU, Demir e Baykara c. Turchia (GC), no. 34503/97, 12 novembre 2008).

Al contempo, però, va ricordato che nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere. E questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale, in particolare quando la presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto piu’ se sottoscritti da soggetti poco o nulla rappresentativi (significativa ad esempio in materia di trattamenti contrattuali collettivi dei c.d. riders è la circolare del Ministero del lavoro del 19/11/2020), diventa un fattore di destabilizzazione, mettendo in discussione l’attitudine alla tendenziale parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende. Questo limite diventa pertanto cogente quando – come ha avvertito la Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 51/2015, dedicata alla disciplina del salario collettivo dei soci di cooperativa – venendo meno alla sua storica funzione, la stessa contrattazione collettiva sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza invece “di contrastare forme di competizione salariale al ribasso”.

1.28. Pertanto, non cambia, e non può cambiare (considerata l’inderogabilità dell’articolo 36 Cost.) la sperimentata regola della presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale: essa opera non solo “in mancanza di una specifica contrattazione di categoria”, ma anche “nonostante” una specifica contrattazione di categoria. Ciò non è in realtà in contraddizione neppure con la sentenza di questa Corte n. 7528 del 29/03/2010, in cui il riferimento alla mancanza di una specifica contrattazione di categoria come presupposto del potere determinativo del giusto salario ex articolo 36 Cost., da parte del giudice, configura un mero obiter dictum nell’economia della decisione (che risulta invero resa in un caso in cui il datore di lavoro non aveva applicato alcun contratto collettivo di diritto comune ed in cui perciò i medesimi giudici di merito avevano dovuto fare riferimento ad una specifica contrattazione collettiva secondo i principi qui ribaditi ab imis).

Diversa è la fattispecie di cui si discute invece nel presente giudizio, che si presenta allorché il giudice deve sottoporre a valutazione un salario determinato a mezzo di una contrattazione collettiva che il lavoratore deduca essere in contrasto con l’articolo 36 Cost.. Anche in tale diversa fattispecie non muta la regola di giudizio sempre affermata da questa Corte (Cass. Sez. Un. 2665/1997, Cass. n. 7157/2003, Cass. n. 9964/2003, Cass. n. 26742/2014, Cass. n. 4951/2019), dovendo applicarsi comunque il principio per cui, pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL, non è escluso che questi siano sottoposti a controllo e nel caso disapplicati allorché l’esito del giudizio di conformità all’articolo 36 Cost., si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice, con conseguente nullità delle relative clausole.

La stessa Corte costituzionale, nella notissima sentenza n. 106 del 1962, pronunciandosi sulla proroga della c.d. Legge Vigorelli (che estendeva i minimi contrattuali erga omnes per legge), aveva già affermato che nell’attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in una situazione di mancata attuazione dell’articolo 39 Cost.) non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario.

1.29. La predetta operazione di riferimento esterno alla contrattazione, come parametro di orientamento dell’equità giudiziale ex articolo 2099 c.c., non viola l’articolo 39 Cost., e la procedura ivi dettata per attribuire efficacia erga omnes della contrattazione collettiva, e neppure il principio di libertà e di autonomia sindacale. Nessuna lesione al principio di libertà sindacale è predicabile, nemmeno quando il giudice non applichi un CCNL di categoria sottoscritto dalla associazione maggiormente rappresentative ancorché richiamato in una legge. Nella materia retributiva non viene in discussione la libertà sindacale nel momento in cui la stessa norma costituzionale (o anche una norma ordinaria) impone un parametro esterno al rapporto di lavoro e rispetto ad esso eteronomo (anche a soggetti non obbligati all’applicazione del CCNL o anche al di fuori del CCNL altrimenti legittimamente applicato), allo scopo di attuare il principio costituzionale della giusta retribuzione riconosciuto in capo ad ogni lavoratore, nonché al fine di un equilibrato contemperamento dei diversi interessi di carattere costituzionale (quand’anche venisse attuato l’articolo 39 Cost.: cfr. Corte Cost. n. 106 cit.).

La Costituzione ha accolto infatti una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all’autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi. I due requisiti di sufficienza e proporzionalità costituiscono limiti all’autonomia negoziale anche collettiva. Pur con tutta la prudenza necessaria nel trattare la materia retributiva e con il rispetto della competenza attribuita normalmente alla contrattazione collettiva, autorità salariale massima, non può che ribadirsi perciò come i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione siano gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva ed abbiano contenuti (anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall’esterno nella determinazione del salario.

1.30 Alla luce di tali considerazioni, nessuna rilevanza può avere la clausola del CCNL Multiservizi sul suo ambito applicativo, invocata dalla ricorrente, perché quel diverso CCNL è stato utilizzato dalla Corte territoriale solo in via parametrica, ossia per individuare la retribuzione rispettosa del precetto posto dall’articolo 36 Cost.. Quindi non ne è stata fatta un’applicazione diretta, questa soltanto esclusa dalla clausola contrattual-collettiva invocata dalla ricorrente.

Né sussiste violazione dell’articolo 39 Cost., e dell’autonomia collettiva garantita da tale norma costituzionale: la verifica giudiziale della retribuzione attiene ad un profilo prettamente individuale del rapporto di lavoro ex articolo 36 Cost., ed è rispettosa delle scelte delle parti sociali qualora il parametro utilizzato sia pur sempre rappresentato da un ccnl regolante un settore merceologico analogo o affine a quello oggetto di causa. Quindi, contrariamente all’assunto della ricorrente (v. ricorso, p. 22), la Corte territoriale non ha in alcun modo alterato la relazione fra gli articoli 36 e 39 Cost.. Essa è intervenuta in funzione correttiva rispetto a scelte delle organizzazioni sindacali dello specifico settore della ricorrente rivelatesi palesemente inadeguate a seguito di una verifica compiuta alla luce di standards reddituali, individuati – all’esito di specifiche indagini socio-economiche e statistiche – da un ente pubblico non economico come l’ISTAT.

2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli articoli 36 e 111 Cost., articoli 2070, 2099, 2697, 2729 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c. e articolo 32 CCNL multiservizi. In particolare censura la sentenza impugnata:

a) per avere omesso di considerare che la retribuzione prevista dal contratto collettivo ha una “presunzione” di adeguatezza a quei principi, sicché era onere dei lavoratori allegare e dimostrare la pretesa non proporzionalità e l’insufficienza della retribuzione garantita dal CCNL servizi fiduciari;

b) per avere omesso di rilevare che i lavoratori non avevano assolto lo specifico onere di allegare e dimostrare, sulla base di parametri di riferimento esterni al contratto collettivo, la pretesa non proporzionalità e l’insufficienza della retribuzione garantita dal CCNL servizi fiduciari;

c) per avere confuso e sovrapposto i due distinti principi di proporzionalità e di sufficienza della retribuzione, adottando una motivazione illogica e contraddittoria;

d) per avere utilizzato come parametro il CCNL multiservizi, che non attiene in alcun modo al settore dei servizi di portierato, vigilanza non armata e reception;

e) per avere omesso di rilevare che il CCNL multiservizi, all’articolo 32, per il personale addetto ai servizi di controllo accessi, prevede un orario normale di lavoro di 45 ore settimanali (e un divisore orario di 196), mentre il CCNL servizi fiduciari prevede un orario di lavoro di 40 ore settimanali (e un divisore orario di 173);

f) per avere omesso di effettuare il raffronto tra le retribuzioni orarie previste dai due contratti collettivi comparati;

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

In relazione alle censure sub a) e b), sulla base delle specifiche allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la Corte territoriale ha confermato il procedimento logico-giuridico compiuto dal Tribunale: sottoposta a verifica la “presunzione” invocata dalla ricorrente e ritenuta smentita alla luce di alcuni dati rilevati dall’ISTAT sulle soglie di povertà, si è posta la conseguente necessità di ricercare altri parametri – ossia un diverso CCNL – per stabilire la “giusta” retribuzione ex articolo 36 Cost..

In relazione alla censura sub c), la Corte territoriale ha motivato analiticamente il proprio convincimento circa la violazione dei due requisiti costituzionali della retribuzione, valorizzando dati ricavati dalla stessa disciplina contenuta nel CCNL servizi fiduciari (come ad esempio la retribuzione complessiva netta mensile, inferiore rispetto alla soglia di povertà rilevata dall’ISTAT).

In relazione alla censura sub d), la Corte territoriale ha esercitato il suo potere discrezionale, che, nella logica della determinazione della “giusta” retribuzione, è un potere riservato al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità laddove adeguatamente motivato in senso conforme al principio di diritto dettato da questa Corte nella sopra ricordata sentenza n. 2245/2006.

In relazione alla censura sub e), contrariamente all’assunto della ricorrente, la Corte territoriale ha espressamente considerato l’articolo 32 CCNL multiservizi e ha evidenziato che tale clausola si riferisce solo al personale che svolge mansioni discontinue e non anche all’addetto al controllo degli accessi, profilo ricoperto dalle due appellanti (v. sentenza impugnata, p. 16). Comunque questo profilo diventa superfluo e recessivo nell’economia della sentenza impugnata, una volta affermato che ciò che conta ai fini della sufficienza della retribuzione ex articolo 36 Cost., è il reddito netto mensile percepito e non la retribuzione oraria.

In relazione alla censura sub f), sussiste il difetto di specificità. A fronte dell’argomentazione spesa dalla Corte territoriale – secondo cui non rileva la retribuzione oraria o l’eventuale diverso divisore orario, essendo invece rilevante il fatto che si tratta di lavoratore impiegato a tempo pieno, senza ragionevole possibilità di integrare il proprio reddito svolgendo altre attività lavorative (v. sentenza impugnata, p. 14) – la ricorrente si è limitata a riproporre la sua diversa tesi, senza confutare lo specifico argomento utilizzato in motivazione dai Giudici d’appello.

3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli articoli 36 e 111 Cost., articoli 2070, 2099, 2697, 2729 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c., L. n. 190 del 2014, articolo 1, commi 12, 13, 14 e 15, L. n. 21 del 2020, articolo 1. In particolare la ricorrente si duole che la Corte territoriale:

a) abbia ritenuto insufficiente la retribuzione mensile assicurata dal CCNL servizi fiduciari senza considerare anche 13 e quota di t.f.r. e tutti gli altri istituti retributivi previsti dal CCNL servizi fiduciari;

b) abbia erroneamente determinato la misura netta delle retribuzioni percepite dalle due lavoratrici e ritenute inferiori alla soglia di povertà, senza prendere in esame le buste paga, come pure era stata espressamente sollecitata a fare in memoria difensiva di appello alle pp. 29-30, nelle quali si era dedotto che mediamente le due lavoratrici percepivano una retribuzione netta oscillante fra Euro 900,00 ed Euro 1.000,00.

Il motivo è inammissibile in relazione ad entrambe le censure.

In relazione alla censura sub a) la ricorrente non ha precisato se e a quanto ammontino le ulteriori voci retributive (13 e t.f.r.) e quelle asseritamente percepite dalle odierne controricorrenti (per scatti di anzianità ed altri titoli eventuali), né se e quando (ossia in quale fase o grado processuale ed in quale atto difensivo) questa questione sia stata da essa sollevata in modo tempestivo sub specie di eccezione di merito.

In relazione alla censura sub b), la ricorrente ha articolato una difesa contraddittoria: dapprima ha ricordato di aver dedotto in appello che le retribuzioni nette percepite dalle due lavoratrici si attestavano “a circa 900/1000 Euro netti mensili” (v. ricorso, p. 57, ult. cpv.), poche pagine più avanti, invece, ha ammesso che la retribuzione lorda mensile delle due lavoratrici ammonti ad Euro 995,00 (v. ricorso, p. 59, 3 rigo).

Nessuna rilevanza, infine, possono avere il c.d. Bonus Renzi (L. n. 190 del 2014, articolo 1, commi da 12 a 15) e il trattamento integrativo introdotto dalla L. n. 21 del 2020, articolo 1, che attengono al regime legale del reddito, mentre oggetto di causa è il livello retributivo previsto dalla disciplina contrattual-collettiva.

Infine il motivo risulta inammissibile anche per un’ulteriore, autonoma, ragione: quand’anche per ipotesi la retribuzione netta mensile prevista dal CCNL servizi fiduciari fosse maggiore di Euro 650,00, nondimeno la Corte territoriale ha adoperato ulteriori criteri di verifica della “sufficienza” ex articolo 36 Cost. (quali il reddito di cittadinanza e l’offerta “congrua” di lavoro Decreto Legge n. 4 del 2019, ex articolo 4, comma 9 bis, conv. in L. n. 26 del 2019: v. sentenza impugnata, p. 17) che la ricorrente non ha in alcun modo censurato. In ogni caso l’accertata non proporzionalità rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato renderebbe comunque nulla la clausola contrattual-collettiva (articolo 23) e necessaria, quindi, la determinazione giudiziale.

4.- Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Il motivo è inammissibile per assoluta genericità e per avere la ricorrente omesso di indicare specificamente quale sarebbe il fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame. La ricorrente si è riferita ai “fatti controversi”, adoperando genericamente il plurale.

Tale deduzione smentisce da se’ l’assunta decisività, che – nella logica del motivo “vincolato” di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – richiede che il fatto di cui si lamenta l’omesso esame sia uno soltanto, perché solo a tale condizione può rivelarsi “decisivo”.

Quanto poi al calcolo della retribuzione netta e alla sua comparazione con le rilevazioni annuali ISTAT delle soglie di povertà, è sufficiente richiamare quanto già argomentato in relazione al terzo motivo.

5.- Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la ricorrente denunzia la nullità della sentenza d’appello per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, e articolo 118 disp. att. c.p.c., per avere la Corte territoriale adottato una motivazione solo “apparente”.

Il motivo è manifestamente infondato alla luce delle considerazioni sopra svolte in relazione ai primi quattro motivi.

6.- Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la ricorrente denunzia la nullità della sentenza d’appello per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, e articolo 118 disp. att. c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto l’insufficienza della retribuzione sulla base dell’erroneo e contestato presupposto per cui la retribuzione base di cui al livello D CCNL servizi fiduciari di Euro 930,00 lordi corrisponderebbe ad una retribuzione netta di Euro 650,00. La motivazione, quindi, sarebbe solo “apparente”.

Il motivo è inammissibile alla luce di quanto già evidenziato in relazione alla censura b) contenuta nel terzo motivo: quand’anche per ipotesi la retribuzione netta mensile prevista dal CCNL servizi fiduciari fosse maggiore di Euro 650,00, nondimeno la Corte territoriale ha adoperato ulteriori criteri di verifica della “sufficienza” ex articolo 36 Cost. (quali il reddito di cittadinanza e l’offerta “congrua” di lavoro Decreto Legge n. 4 del 2019, ex articolo 4, comma 9 bis, conv. in L. n. 26 del 2019: v. sentenza impugnata, p. 17) che la ricorrente non ha in alcun modo censurato. In ogni caso l’accertata non proporzionalità rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato renderebbe comunque nulla la clausola contrattual-collettiva (articolo 23) e necessaria, quindi, la determinazione giudiziale.

7.- Con il settimo motivo, proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti per avere la Corte territoriale omesso di considerare che i conteggi elaborati dalle due lavoratrici erano stati da essa contestati, come risulta dalle note difensive del 15/06/2021.

Il motivo è infondato.

Come si evince dalla sentenza impugnata (v. p. 18, ultimo rigo), la Corte territoriale ha utilizzato i conteggi elaborati dalle lavoratrici appellanti perché li ha ritenuti “non specificamente” contestati. Dunque i Giudici di appello non hanno affermato – contrariamente all’assunto della ricorrente – che i conteggi non erano stati contestati, bensì che non lo erano stato in modo specifico.

Questa motivazione esclude il lamentato omesso esame del contenuto delle note difensive del 15/06/2021. Dal tenore di quelle note, infatti, si evince che la società si era limitata ad invocare il computo anche della somma mensile (lorda) di Euro 20,00 a titolo di AFAC, ma non aveva in alcun modo spiegato come questo importo – specie in considerazione del suo esiguo ammontare – potesse incidere sulla valutazione e sulla determinazione della “giusta” retribuzione ex articolo 36 Cost.. Dunque effettivamente quella contestazione non poteva dirsi “specifica”.

Analogo difetto sussiste nella formulazione del presente motivo di ricorso per cassazione. Ne consegue altresì la mancanza di “decisività'” del fatto di cui la ricorrente ha (infondatamente) lamentato l’omesso esame.

8.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia rappresentato dalla differenza tra la retribuzione annua percepita dalle controricorrenti e quella riconosciuta dalla Corte territoriale come “giusta” ai sensi dell’articolo 36 Cost.. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, pari a quello per il ricorso a norma dell’articolo 13, comma 1 bis, Decreto del Presidente della Repubblica cit., se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alle controricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.800,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge, con attribuzione ai procuratori dichiaratisi antistatari.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, pari a quello Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, pari a quello per il ricorso a norma dell’articolo 13, comma 1 bis, Decreto del Presidente della Repubblica cit., se dovuto.

Giusta retribuzione ex art. 36 Costituzione e sindacato del giudice
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: