L’elemento centrale ai fini della distinzione tra subordinazione e autonomia risiede nel vincolo di soggezione del prestatore ai poteri datoriali da accertare con riguardo alle effettive modalità di espletamento della prestazione lavorativa.

Nota a Cass. (ord.) 23 gennaio 2020, n. 1555 e Cass. (ord.) 21 aprile 2020, n. 7981

Stefano Stinziani

“La subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui mentre nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività”. Pertanto, l’elemento essenziale di differenziazione tra autonomia e subordinazione è il vincolo di soggezione del prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare dell’imprenditore che deve essere ricercato “in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa” (v., fra le tante, Cass. n. 1153/2013; Cass. n. 5645/2009; Cass. n. 1717/2009).

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (ord. 23 gennaio 2020, n. 1555, conforme ad App. Catania n. 438/2015) in relazione al ricorso di un prestatore volto all’accertamento della natura subordinata del proprio rapporto di lavoro avente ad oggetto lo svolgimento dell’attività di giardiniere presso una villa privata.

In merito, la Corte ha ribadito che “il primario parametro distintivo della subordinazione” è il vincolo di soggezione del lavoratore alle prerogative datoriali, con conseguente limitazione della propria autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, la cui sussistenza deve essere verificata con riguardo alle effettive modalità di espletamento della prestazione.

Gli altri indici (c.d. sussidiari), elaborati dalla giurisprudenza, concorrono in via indiziaria all’accertamento di detto parametro, dal momento che possono “in astratto” conciliarsi anche con il lavoro autonomo. In particolare, occorre fare riferimento a criteri, quali l’assenza del rischio economico, la forma della retribuzione, le modalità della collaborazione, l’orario di lavoro fisso e continuativo, il luogo e la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali nonché la formale qualificazione giuridica del contratto individuale di lavoro (Cass. n. 7024/2015; Cass. n. 7171/2003).

Con riguardo a tale ultimo elemento, il nomen iuris eventualmente utilizzato dalle parti “non è vincolante per il giudice ed è (…) sempre superabile” laddove sia provato uno scostamento dal programma negoziale pattuito nella concreta fase di attuazione del rapporto, manifestandosi in tal caso per comportamenti concludenti “una nuova e diversa volontà” che prevale sulla precedente (Cass. n. 812/1993).

Di conseguenza, quand’anche le parti abbiano dichiarato di voler escludere il vincolo di subordinazione, il giudice può addivenire ad una diversa qualificazione giuridica del rapporto, qualora si dimostri che “in concreto” sia stata resa una prestazione “alle dipendenze e sotto la direzione” dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2094 c.c. (Cass. n. 12926/1999; Cass. n. 4220/1991). Ciò anche in considerazione della posizione di debolezza del dipendente che “potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro”.

Pertanto, ai fini della individuazione della natura giuridica del rapporto di lavoro, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato mediante il ricorso agli elementi di fatto che scaturiscono dal concreto svolgimento del rapporto e che il giudice deve individuare in concreto.

Quanto al caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte di Appello di Catania, nell’escludere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ha correttamente applicato i principi sopra richiamati. Ciò in quanto le concrete modalità di espletamento del rapporto, per cui il prestatore “decideva se, quando e con quali tempi occuparsi della cura del giardino” in assenza di direttive impartite giornalmente, di controllo della presenza o del lavoro svolto, denotavano “quella libertà di organizzazione” tipica di un rapporto di impiego ai sensi dell’art. 2222 c.c.

In altra pronuncia la Corte di Cassazione (ord. 21 aprile 7981/2020, conforme ad App. Firenze n. 91/15) ha, invece, ritenuto provato il rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 2094 c.c. valorizzando una serie di “indici sintomatici della subordinazione”, quali la “costante presenza in azienda” e lo svolgimento di mansioni proprie di una impiegata amministrativa (predisposizione, raccolta e archiviazione di documenti inerenti all’attività aziendale e la tenuta dei contatti con la clientela in sostituzione del titolare), che presuppongono “un esercizio conforme alle direttive del titolare dell’azienda”.

Lavoro subordinato: i criteri di accertamento
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