Il diritto al risarcimento del danno non è escluso dalla coesistenza di uno stato depressivo della lavoratrice, se si prova che i comportamenti discriminatori e vessatori subiti siano una concausa della malattia.

Nota a App. Milano 22 marzo 2021, n. 475

Pamela Coti 

Per fondare l’eventuale responsabilità è sufficiente che la condotta, dolosa o colposa, posta in essere dall’agente abbia avuto efficacia causale anche solo a livello di concausa nella produzione dell’evento dannoso.

È quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano 22 marzo 2021, n. 475 in relazione al caso di una lavoratrice – ballerina, vittima di una serie di comportamenti vessatori posti in essere dal datore di lavoro ai suoi danni durante il rapporto di lavoro – entrata in una forte depressione.

La Corte, riformando sul punto la decisione del Giudice di primo grado, ha precisato che non si può sostenere che la presenza di un determinato vissuto possa escludere la rilevanza causale degli atteggiamenti vessatori e discriminatori comprovati nel deterioramento dello stato di salute della vittima. Ogni soggetto reagisce diversamente dinanzi ad eventi stressanti, ma questo non può essere inteso come motivo valido di esclusione dell’efficacia causale di fatti illeciti, ove ne sia stata provata l’esistenza e il nesso causale. Principio della irrilevanza del fattore, anche se concausale, non interruttivo sancito, inoltre, dalla Corte di Cassazione: “un evento dannoso è da considerarsi causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo… quando la sua condotta abbia concorso, insieme a circostanze naturali, alla produzione dell’evento, l’agente deve rispondere per l’intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato” (v. Cass.  8 giugno 2007, n. 13400; Cass. 19 luglio 2005, n. 15183).

I Giudici di Appello, dopo aver disposto una nuova CTU, hanno nel merito specificato che:

–  i comportamenti dannosi esaminati non configurano la fattispecie del mobbing, mancando l’intento persecutorio.  Ne consegue anche l’esclusione della sussistenza della più attenuata fattispecie dello straining, che è un mobbing in cui le condotte non sono caratterizzate da continuità, ma che, in quanto rientrante nella fattispecie del mobbing, deve evidenziare lo stesso intento persecutorio. Il che non esclude, però, la responsabilità del datore di lavoro che resta gravato dall’obbligo di tutelare la condizioni di lavoro a garanzia del lavoratore ex art. 2087 c.c. Obbligo che, in generale, consiste nell’imporre il rispetto di quelle particolari misure che, secondo la particolarità del lavoro e l’esperienza comune, sono idonee a tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche quella morale e psicologica del lavoratore. È, pertanto, palese la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede di cui all’art. 2087 c.c. gravanti sul datore di lavoro, essendo stato provato il nesso tra la situazione lavorativa e le reazioni ad esse della lavoratrice;

–  “ per danno non patrimoniale da lesione del diritto alla salute deve intendersi l’insieme dei pregiudizi subiti dalla vittima, intesi sia come danno biologico che come sofferenza soggettiva. Per decidere sul suo ammontare, vanno acclarati, sulla base delle valutazioni medico legali, il carattere lesivo dei comportamenti contestati anche sotto il profilo della lesione alla dignità, ed i pregiudizi subiti a livello professionale, posto che lo svolgimento della professione è una delle forme in cui la personalità si esprime (tanto più se si tratta, come in questo caso, di professione artistica)”;

Provato quindi l’inadempimento datoriale, l’elemento soggettivo, il nesso causale, e il danno, la Corte di Appello ha provveduto alla sua quantificazione con applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano vigenti al momento della decisione.

Risarcimento del danno: ammesso pure in presenza di uno stato depressivo della lavoratrice
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