Il giudice, qualora accerti che il lavoratore, espulso per licenziamento “economico”,  poteva essere ricollocato in azienda, procede alla reintegrazione nel posto di lavoro per manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento purché tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro.

Nota a Cass. 2 maggio 2018, n. 10435

Maria Novella Bettini e Flavia Durval

La nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e le conseguenze del mancato repêchage del lavoratore sono state oggetto di importanti puntualizzazioni da parte della Corte di Cassazione (2 maggio 2018, n. 10435).

La sentenza interviene a seguito di ricorso contro la decisione di App. Bologna (8 luglio 2016) che, relativamente ad un caso di inottemperanza del datore di lavoro (che aveva licenziato in seguito a ristrutturazione organizzativa determinata dall’esigenza di esternalizzare un’attività aziendale) all’obbligo di repêchage, trattandosi di recesso sottoposto alla disciplina dettata dall’art. 18, co. 7, Stat. Lav., come novellato dalla L. n. 92/ 2012 (c.d. L. Fornero), aveva applicato il regime sanzionatorio indennitario di cui al co. 5 in considerazione della riferibilità della nozione di “fatto posto a base del licenziamento” esclusivamente alla “modifica prodotta nella realtà dalla decisione aziendale”.

La Corte, dapprima sintetizza il proprio orientamento consolidato secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo se sussistono due condizioni:

1) l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro;

2) e la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (c.d. repêchage o ripescaggio), alla luce della professionalità raggiunta in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (v. da ultimo, Cass. n. 27792/2017, Cass. n. 24882/2017, annotata in questo sito da A. LARDARO, I requisiti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; Cass. n. 12101/2016 e Cass. n. 5592/2016).

Quanto all’onere della prova dell’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale, secondo la Corte, trattandosi di prova negativa, essa grava sul datore di lavoro.

Tale onere probatorio riguarda: i fatti e le circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato. In altri termini, egli dovrà “dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte” (Cass. n. 27792/2017,  Cass. n. 24882/ 2017, Cass. n. 9869/2017, Cass. n. 160/2017, annotata in questo sito da F. BELMONTE, L’obbligo di repechâge nel licenziamento per ragioni economiche).

I giudici passano poi ad esaminare la portata applicativa del co. 7 art. 18 Stat. Lav., al fine di individuare l’eventuale sussistenza di ipotesi, sia pure residuali (v. Cass. n. 14021/2016), “di operatività della tutela reintegratoria con particolare riguardo al caso in cui il datore di lavoro dimostri l’effettività della soppressione del posto di lavoro ma venga accertata l’esistenza di altri posti ove poter utilizzare il dipendente”.

Secondo la Corte, il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” comprende entrambi i presupposti di legittimità della fattispecie, in quanto, come detto, nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, come elaborata dalla giurisprudenza consolidata, rientra sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro (ex art. 3, L. n. 604/1966) sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

Perciò, una volta accertata l’ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti (ossia “evidente l’insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa che causalmente determini un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, ovvero della impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse”), il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro (nel senso che l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore è riconducibile al vizio di “manifesta insussistenza del fatto”,  App. Roma 1 febbraio 2018 (Pascarella, rel.), secondo cui: così come “l’impossibilità di ricollocamento del lavoratore, il cui posto sia stato soppresso costituisce una delle condizioni di fatto che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche tale impossibilità costituisce un elemento del ‘fatto’ che deve sussistere per evitale l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata” di cui al co. 4, art. 18, Stat. Lav.).

In base alla soluzione esegetica scelta dalla Corte, dunque, privilegiando il tenore lessicale della legge (art. 18, Stat. Lav., come mod. dalla Legge Fornero), il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti “può” essere assoggettato a sanzioni diverse, vale a dire: alla reintegrazione nel posto di lavoro (co. 4) oppure al risarcimento del danno (co. 5).

Il legislatore, tuttavia, non fornisce indicazioni precise per stabilire “in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio più severo o a quello meno rigoroso ma, dovendo, il giudice motivare la scelta di tale alternativa, il criterio in base al quale esercitare il potere discrezionale,  secondo principi di ragionevolezza, si può desumere dai principi generali dell’ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nell’ipotesi in cui “il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica” (ex art. 2058 c.c., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale, su cui  Cass. n. 15726/2010, Cass. n. 4925/2006,) ovvero di diminuire l’ammontare della penale concordata tra le parti (ex art. 1384 c.c.).

Ciò premesso, il Collegio afferma testualmente che “il ricorso ai principi generali del diritto civile permette di configurare un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare – per la scelta del regime sanzionatorio da applicare – se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria”.

Di conseguenza, in base all’art. 384 c.p.c., “in funzione nomofilattica, essendo stata affrontata per la prima volta da questa Corte la questione di particolare importanza concernente la portata applicativa del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012, va enunciato il seguente principio di diritto: la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”.

Il giudice di appello, invece, aveva seguito un diverso ragionamento, optando per il regime indennitario, in quanto non aveva ritenuto compreso, nel “fatto posto a base del licenziamento”, il requisito dell’impossibilità di repêchage.

Licenziamento economico: possibile la reintegrazione se manca il repêchage
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