L’attività espletata da un lavoratore che, pur in assenza di un titolo di avvocato, presti attività di natura prevalentemente intellettuale a favore di uno studio legale è subordinata.

Nota a Cass. 10 settembre 2019, n. 22634

Francesco Belmonte

In relazione alla qualificazione come autonome o subordinate delle prestazioni rese da un professionista in uno studio professionale, la sussistenza o meno della subordinazione va verificata in relazione alla intensità della etero – organizzazione della prestazione, allo scopo di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento “per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui.” (Cass. n. 3594/2011).

Questo, l’importante principio stabilito dalla Corte di Cassazione (Cass. 10 settembre 2019, n. 22634), conforme a Corte di Appello di Bari (n. 2345/2015).

Nella fattispecie, il collaboratore era stato assunto dallo studio legale nel 1984 con un contratto di lavoro subordinato con generica qualifica di segretario e, dopo un asserito licenziamento intervenuto nel 1990 (allegato dal datore di lavoro, ma non provato in sede giudiziale), aveva proseguito l’attività a favore dello studio legale sino al 2001 quale collaboratore autonomo. Il lavoratore ha presentato ricorso per ottenere il pagamento di differenze retributive, deducendo la natura subordinata dell’intero rapporto di lavoro dal febbraio 1984 al maggio 2001.

In merito, la Cassazione ripropone l’orientamento consolidato della giurisprudenza secondo cui ai sensi dell’art. 2094 c.c. “costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato (cfr. Cass. n. 4500/2007). Tale assoggettamento non costituisce un dato di fatto elementare quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze; sicché ove esso non sia agevolmente apprezzabile, come nel caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi”, quali: la continuità della prestazione; il rispetto di un orario predeterminato; la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito; l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale, ecc., che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria (cfr. Cass. S.U. n. 379/1999; Cass. n. 9252/2010; n. 4500/2007; n.13935/2006; n.9623/2002).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva individuato gli indici del lavoro subordinato rilevando che il collaboratore svolgeva attività assolutamente prevalente nello studio legale, osservava un orario lavorativo imposto dalla stessa organizzazione dello studio e svolgeva mansioni di supporto a quelle dell’avvocato e nell’interesse dei clienti di quest’ultimo. In particolare, egli “lavorava all’interno dello studio dell’avv. Me.; aveva rapporti con clienti non suoi ma dell’avv. Me.; svolgeva un’attività che non poteva esercitare in proprio perché privo del titolo di avvocato e di cui l’avv. Me. assumeva necessariamente la paternità; riceveva dal titolare dello studio costantemente direttive, in particolare nelle riunioni serali quotidiane in cui venivano esaminate tutte le pratiche trattate e dettate indicazioni sull’attività da svolgere il giorno seguente.”

Collaboratore di studio professionale e subordinazione
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