Nella successione fra contratti collettivi il lavoratore mantiene solo i c.d. diritti quesiti, entrati cioè a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, e non i diritti derivanti da una norma collettiva non più esistente.

Nota a Cass. 5 aprile 2022, n. 11072

Flavia Durval      

“Nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale”.

“Nell’ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori, solo con riferimento a situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese, e non invece in presenza di quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi” (Cass. n. 20838/2009 e Cass. n. 18548/2009)”.

Questi, gli importanti principi ribaditi dalla Corte di Cassazione (5 aprile 2022, n. 11072; in linea, v. Cass. nn. 36923, 36708, 36228/2021 e Cass. n. 13960/2014) la quale conferma la decisione della Corte di Appello di Brescia (n. 17/2019) che ha respinto il ricorso di alcuni lavoratori nei confronti di Margherita Distribuzione s.p.a. (già Auchan s.p.a.) per l’accertamento del diritto a percepire, anche dopo la disdetta da parte della società dell’accordo integrativo aziendale Auchan 2007, la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam”.

La Cassazione:

– esclude che la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam” costituisse, per effetto di novazione, un premio incorporato nei singoli contratti individuali e come tale insensibile a modifiche non consensuali, ed ha confermato la natura collettiva di detto emolumento;

– afferma che “il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che più non esiste perché caducata o sostituita da altra successiva”;

– rileva che i trattamenti retributivi accessori, come la retribuzione di risultato e più in generale i trattamenti accessori, non rientrano nella sfera di garanzia dettata dall’art. 36 Cost. Ciò, in quanto la tutela costituzionale comprende, “non tutto il complessivo trattamento contrattuale, bensì solo quello che è stato definito il c.d. minimo costituzionale” (v., fra tante, Cass. n. 944/2021 e Cass. n. 20922/2018), Ne consegue che venendo in rilievo un trattamento accessorio di derivazione collettiva, la soppressione del premio in oggetto con riferimento ai lavoratori ai quali era stato erogato fino al momento della disdetta dell’accordo aziendale non determina alcuna lesione al principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.;

– nega la possibilità di applicare il principio di irriducibilità della retribuzione, il quale trova fondamento normativo nell’art. 2103 c. c., ed implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non sia riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni ipotesi in cui il compenso pattuito, anche in sede di contratto individuale venga ridotto, salvo che, in caso di legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello “ius variandi” (v. Cass. nn. 19092/2017 e 4055/2008);

– condivide la decisione della Corte di Appello di Brescia la quale ha: a)  ritenuto che il recesso dall’accordo integrativo aziendale del 2007 da parte della società, nel luglio 2015, determinasse legittimamente la caducazione della fonte dell’obbligazione di erogazione di detto premio fisso; b)  osservato che il tenore testuale dell’art. 22 del contratto aziendale Auchan 2007 non consentisse di ravvisare la volontà delle parti di mutare la natura collettiva del premio aziendale fisso in emolumento di natura individuale; c)  escluso che la suddetta voce retributiva costituisse, per effetto di novazione, un premio di carattere individuale, incorporato nei singoli contratti individuali e come tale insensibile a modifiche non consensuali; d) confermato la natura collettiva dell’emolumento in questione, in conformità alla giurisprudenza di legittimità consolidata circa “la natura di fonte eteronoma delle disposizioni dei contratti collettivi, che dunque, in linea generale, non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali”; e) negato che si trattasse di diritto quesito, ossia già entrato a far parte del patrimonio dei lavoratori, trattandosi di mera pretesa alla stabilità nel tempo di normative collettive più favorevoli ed avendo, la società, erogato tale emolumento negli anni 2006 e 2007 (ossia nelle more della stipula dell’accordo integrativo 2007) “a titolo di acconto e/o anticipazione sui futuri trattamenti”.

Premio aziendale e diritti quesiti
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