Il prolungato isolamento di un dipendente dà titolo al risarcimento del danno per atti persecutori colposi. 

Nota a Cass. ord. 7 febbraio 2023, n. 3692

Maria Novella Bettini

Dal momento che il danno professionale può essere dimostrato anche in via presuntiva, sono idonei a presumere in maniera univoca il degrado della professionalità acquisita i seguenti elementi accertati e provati: elevato contenuto professionale dei compiti svolti sino al demansionamento (implicante anche una veloce obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali); svuotamento di mansioni e svilimento dei compiti assegnati (con assegnazione ad attività meramente esecutive e prive di ogni autonomia concettuale); prolungata e ingiustificata emarginazione; perdita di chances di aggiudicarsi i premi di produttività; mancato invio a corsi di formazione; inoperosità pressoché totale cui era stato lasciato il dipendente. Tali elementi, inoltre costituiscono atti di persecuzione compiuti o tollerati colposamente riconducibili al mobbing e idonei a ledere la salute della vittima, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., con possibile lesione della salute della vittima.

Lo afferma la Corte di Cassazione (ord. 7 febbraio 2023, n. 3692) in relazione al ricorso proposto da un dipendente amministrativo dell’Università, ribadendo che:

– in tema di mansioni, “il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ. (e così anche l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento si traduce in una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa” (v. Cass. n. 7963/2012);

– qualora ricorrano l’elemento oggettivo, costituito da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro, e quello soggettivo, rappresentato dall’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. n. 12437/2018; Cass, n. 26684/2017) è configurabile la fattispecie del mobbing lavorativo (sebbene nella fattispecie i diversi elementi non rientrassero, tout court, nei parametri tradizionali del mobbing). Così come si verifica il c.d. straining, “quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie” (Cass. n. 18164/2018, in q. sito con nota di M. BONI);

– la condotta mobbizzante prescinde “dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per il caso di dolo”;

– di fronte ad un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con il danno alla salute del dipendente (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. n. 16256/2018) e a comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale (Cass. n. 9901/2018) è comunque configurabile una responsabilità datoriale;

– il datore di lavoro è tenuto ad evitare, non solo il demansionamento ed ancor più, come nella specie, una privazione delle mansioni, ma anche situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (v. Cass. n. 3291/2016);

– esula dalla responsabilità ex art. 2087 cod.civ. l’ipotesi in cui i pregiudizi scaturiscano dalla qualità “intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa” (Cass. n. 1509/2021 e Cass n. 3028/2013;) o quando si tratti solo di “meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili” (Cass. S.U. n. 4063/2010; Cass., S.U. n. 26972/2008); ovvero di quella “costrittività organizzativa” derivante dal contesto organizzativo e gerarchico ordinariamente usurante dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013, cit. e già Cass. n. 10361/1997).

Inattività e demansionamento del lavoratore
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