L’azione ostile o discriminatoria compiuta da un superiore nei confronti di un subalterno, come il demansionamento o l’isolamento, i cui effetti si prolungano nel tempo, producendo, nel lavoratore che la subisce, stress e sofferenza psichica, sono perseguibili ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Nota a Cass. ord., 10 luglio 2018, n. 18164

Mariapaola Boni

Le condotte persecutorie che risultino sprovviste del carattere di continuità, necessario ai fini della qualificazione del mobbing, possono nondimeno configurare la fattispecie dello straining, forma attenuata di mobbing che, pur se priva del carattere della continuità tipico delle azioni vessatorie, ove si riveli produttiva di danno all’integrità psicofisica del lavoratore, giustifica la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c., la quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale dei dipendenti. Di tale ultima disposizione, peraltro, “da tempo è stata fornita un’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.” (v. Cass. n. 3977/2018, annotata, in questo sito, da P. PIZZUTI, Mobbing e straining e Cass. n. 3291/2016).

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (ord. 10 luglio 2018, n. 18164), secondo cui lo straining e il mobbing rappresentano due categorie medico-legali indipendenti (v. Cass. n. 3291/2016) che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici, dal momento che ambedue si sostanziano in condotte ostili poste in essere dal datore di lavoro e idonee a incidere sul diritto alla salute del prestatore, differenziandosi, nel caso dello straining, per la sola assenza del carattere di continuità di tali condotte.

Pertanto, ha diritto a vedere accolta la propria domanda di risarcimento il lavoratore che,  pur lamentando nel ricorso di avere subito mobbing, vede qualificata in giudizio la condotta come straining. In questa ipotesi, infatti, non trattandosi di fattispecie giuridicamente autonome, non si può parlare di violazione della norma del codice di procedura civile che impone la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Non è dunque idonea a qualificare una domanda nuova quella proposta in secondo grado con cui un lavoratore definisca come straining condotte che nel ricorso di primo grado erano state identificate come mobbing.

I due fenomeni costituiscono, infatti, “due differenti qualificazioni di tipo medico-legale per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni ‘stressogene’ che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio” (v. Cass. n. 3291/2016 cit. e n. 7844/2018).

Straining e risarcimento del danno
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