Nell’individuazione della retribuzione sufficiente il giudice deve fare riferimento ai contratti collettivi della categoria (CCNL) ovvero può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe, oppure può riferirsi ad indicatori economici e statistici.

Nota a Cass. 2 ottobre 2023, n. 27711

Maria Novella Bettini e Flavia Durval

“1.- Nell’attuazione dell’art. 36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.

2.- Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.

3.- Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099,2° comma c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022”.

Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione 2 ottobre 2023, n. 27711, diff. da App. Torino 20 luglio 2022, R.G.N. n. 169/2022 (analogamente v. anche Cass. 2 ottobre 2023, n. 27769, diff. da App. Milano 11 aprile 2022, R.G.N. n. 1380/2021) in relazione al ricorso di un vigilante (dipendente da una cooperativa di lavoro) che ha agito in giudizio per ottenere il diritto all’adeguamento delle retribuzioni percepite, ritenuta la non conformità ai parametri dell’art. 36 della Costituzione del trattamento retributivo applicato, anche ai sensi degli artt. 3 ,1 co. L. n. 142/2001 e 7 L. n. 31/2008, corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione S.F. del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e S.F. dell’ 1/2/2013; ed ha chiesto l’accertamento del diritto a percepire un trattamento salariale non inferiore a quello previsto per il corrispondente livello del CCNL proprietari di fabbricati o in subordine del CCNL Multiservizi o del CCNL Terziario.

La Cassazione precisa che:

a) Le due direttrici dell’art. 36 Cost.:

il giudice non può sottrarsi alle due direttrici sulla cui base deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione (v. Cass. n. 24449/2016). Il riferimento ai due diritti, sanciti dall’art. 36, 1° co., Cost. (norma immediatamente precettiva), i quali nella concreta determinazione della retribuzione si integrano a vicenda (v. Corte Cost. n. 74/1966 e n. 559/1987). E cioè: “il criterio positivo di carattere generale” della retribuzione proporzionata – che garantisce ai lavoratori una “ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata”- e il “limite negativo, invalicabile in assoluto” della retribuzione sufficiente che “dà diritto ad una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo, ovvero ad una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

b) Il criterio della povertà assoluta:

la verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta attuata attraverso il livello Istat di povertà assoluta (calcolata dall’Istat relativamente ad un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell’età, dell’area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia) non può esaurire l’oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell’art. 36 Cost. Tale livello, infatti, può solo aiutare ad individuare una soglia minima invalicabile.

c) La garanzia di una vita dignitosa:

invece, “i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa”. Sicché il trattamento economico concepito dalla Costituzione deve tener conto non solo del soddisfacimento di meri bisogni essenziali bensì anche del conseguimento … di beni immateriali (quali, ad es., la partecipazione ad attività culturali, educative e sociali) come affermato dalla Direttiva UE sui salari adeguati all’interno dell’Unione n. 2022/2041, considerando n. 28. Nel raffronto tra il salario di fatto e quello costituzionale il rispetto dei criteri di sufficienza e di proporzionalità impone anche di “non assumere a riferimento un salario lordo (che non si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l’indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali)”.

d) Il confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva:

la determinazione del quantum del salario costituzionale secondo la giurisprudenza univoca è improntata al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva (v., fra tante, Cass. n. 2245/2006 e Cass. n. 5139/2005) “ritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità. Occorre però fare salvo, oltre ad eventuali disposizioni di legge, l’intervento correttivo del giudice sulla contrattazione collettiva medesima a tutela della precettività dell’art.36 Cost. Il che significa che (ex art. 2099, co.2, c.c.) il giudice chiamato ad adeguare il trattamento retributivo all’art. 36 della Cost. può fare riferimento – come parametri esterni per la determinazione del giusto corrispettivo – alla retribuzione stabilita dai CCNL, i quali “fissando standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, una efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute”.

e) La verifica giudiziale sulla retribuzione fissata dal CCNL:

tuttavia, il riferimento al salario di cui al CCNL costituisce soltanto una presunzione relativa di conformità alla Costituzione, suscettibile di accertamento contrario. Ed infatti, se è vero che il datore di lavoro è libero di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare, è altrettanto vero che il lavoratore possa appellarsi ad un contratto collettivo diverso da quello di provenienza. Ciò, “non già per ottenerne l’applicazione bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto” (Cass. S.U. n. 2665/1997; Cass.  n. 4951/2019 e Cass. n. 26742/2014).

L’oggetto dell’intervento giudiziale può quindi riguardare “non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza; atteso che, per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento” (v. Cass. n. 17698/2022 e nn. 4622 e 4621/2020),

f) Retribuzione contrattuale insufficiente:

pertanto, “la violazione dell’art. 36 Cost. è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore possa presentare caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non si può assolutamente escludere che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo” (v. Cass. n. 2302/1979 e n. 1255/1976). Di ciò può tenere conto il giudice seppur con “massima prudenza e adeguata motivazione”.

g) Parametri giudiziali differenti da quelli collettivi:

Il giudice “può motivatamente discostarsi” dalla retribuzione stabilita dal CCNL anche ove questo sia stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi ed anche qualora la legge stessa rinvii a tali sindacati per individuare la retribuzione spettante al lavoratore. Ed infatti, ai fini dell’applicazione dell’art. 36 Cost., “il giudice di merito gode, ai sensi dell’art. 2099 c.c., di una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’art. 36 Cost.”. Nella casistica giurisprudenziale si registrano “frequenti deviazioni dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”, dal momento che il riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi di categoria è stato sempre inteso come “una facoltà piuttosto che un obbligo inderogabile per il giudice di merito, fatto salvo l’onere della motivazione conforme” (Cass. n. 5519/2004).

Sicché quest’ultimo può individuare d’ufficio (Cass. n. 7528/2010 e n. 1393/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata, ovvero individuare, anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, i criteri utilizzabili al fine di determinare la retribuzione rispondente al precetto costituzionale (Cass. n. 12271/2005); o anche “giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art 2070 c.c. e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario” (v. S.U. n. 2665/1997 e Cass. n. 7157/2003); oppure, “fatte salve contrarie disposizioni normative (per es. ai fini del c.d. minimale contributivo), selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti” (Cass. n. 19284/2017 e Cass. n. 2758/2006); ovvero utilizzare motivatamente parametri (quali la dimensione o la localizzazione dell‘impresa, l’orario di lavoro, le forme di sostegno al reddito) anche differenti da quelli contrattuali (v. Cass. n. 24449/2016 e Cass. 24092/2009).

Nel considerando n. 28, Direttiva n. 2041 cit. si prevede espressamente che, “nella individuazione di parametri utili per determinare l’adeguatezza del salario, “la valutazione potrebbe inoltre basarsi su valori di riferimento associati a indicatori utilizzati a livello nazionale, come il confronto tra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere d’acquisto dei salari minimi”.

h) I CCNL e il dumping salariale:

è altresì nota la frammentazione della rappresentanza, la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie e la conseguente proliferazione del numero dei CCNL. Tali fenomeni hanno innescato una concorrenza salariale “al ribasso” come è avvenuto nel caso di specie in seguito ai ripetuti cambi di appalto e all’applicazione nei confronti del lavoratore ricorrente di CCNL sempre diversi e peggiorativi. In questo quadro, afferma la Cassazione, la “contrattazione collettiva, non può tradursi, in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale ed il giudice, pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL, può sottoporli a controllo e disapplicarli allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 si riveli negativo”.

i) Disapplicazione giudiziale dei i salari dettati dalla contrattazione collettiva:

nel caso di specie, la normativa del lavoro in cooperativa (art. 3, 1° co, e art. 6, co. 2, della L. n. 142/2001, modificata dall’art. 1, co. 9, lett. f), della L. n. 30/2003; art. 7, 4° co., D.L. n. 248/2007, convertito in dalla L n. 31/2008) generalizza, rendendolo cogente, il meccanismo giurisprudenziale di adeguamento del salario ex art. 36 Cost. – prevedendo l’obbligo del rispetto di standard minimi inderogabili validi sul territorio nazionale individuati nei trattamenti complessivi fissati dai contratti collettivi conclusi dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria -. Tuttavia, pur alla luce di tale previsione non si può violare il contenuto sostanziale precettivo dell’art. 36 Cost. di cui tale normativa dovrebbe garantire invece l’attuazione e appare pertanto necessaria una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione al fine di “individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale”. Ciò, in quanto il rinvio alla contrattazione non costituisce “un vincolo esterno e superiore al giudice” (v. Corte Cost. n. 51/2015), ma resta un “parametro che soggiace alla valutazione giudiziale e che come tale è suscettibile di essere disatteso in conformità alla Costituzione”.

“In altri termini anche i salari dettati dalla contrattazione collettiva applicabile alle cooperative, secondo la L. n. 142/2001 e la L. n. 31/2008, possono essere disapplicati dal giudice ed il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo, che rispetti il minimo costituzionale (in questi termini da ultimo v. le già citate Cass. nn. 17698/2022, 4622/2020, 4621/2020, 9862/2019, 9005/2019, 7047/2019, 5189/2019, n. 20216/2021).”

Ne consegue che una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non può realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; “posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto. Sicché una legge (come quella in tema di cooperative ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 ed all’art 39 Cost.”. Vanno perciò comparati i diversi trattamenti retributivi e, allo scopo di “determinare il trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, cui il socio lavoratore di cooperativa ha diritto, si possono applicare anche contratti collettivi della categoria affine per prestazioni analoghe” (così, art. 3, L. n. 142/2001). Lo stesso ragionamento vale per il lavoratore subordinato (non socio) che operi all’interno di una cooperativa.

In sintesi, in tema di società cooperative, “nel regime dettato dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, al socio lavoratore subordinato spetta la corresponsione di un trattamento economico complessivo (ossia concernente la retribuzione base e le altre voci retributive – v. Cass. n. 17698/2022, cit.) comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine” (cfr. Cass. n. 17583/2014 e n. 19832/2013). Per giudicare la compatibilità con l’art.36 della Cost. del trattamento complessivo percepito dal lavoratore non bisogna tener conto anche del lavoro straordinario.

j) L’onere della prova:

Quanto all’onere della prova, spetta al giudice di merito valutare la conformità della retribuzione ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., “mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento” (v. Cass. n. 8097/2002). Nondimeno, il prestatore che ritenga inosservati i minimi costituzionali, deve fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto (anche limitandosi alla differenza fra paga oraria percepita e retribuzione protetta a livello costituzionale), “dovendo in mancanza presumersi adeguata e sufficiente la retribuzione corrisposta nella misura prevista in relazione alle mansioni esercitate dal contratto collettivo del settore” (v. Cass. nn. 11881/1990, 163/1986). Nel caso di specie, il lavoratore “oltre a richiamare il valore soglia di povertà, aveva dedotto di aver lavorato nell’ambito del medesimo appalto con differenti e successive aziende appaltatrici per svolgere le medesime mansioni venendo pagato sempre meno in applicazione di differenti CCNL per lo svolgimento delle stesse mansioni, producendo le relative buste paga e le relative tabelle salariali”.

Per un primo commento, v. G. PROIA, Minimi sindacali, articolo 36 della Costituzione e sindacato giudiziale, in Il sole 24 ore, Norme e tributi, 4 Ottobre 2023.

Sentenza: 

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 ottobre 2023, n. 27711

Lavoro – Adeguamento delle retribuzioni – CCNL vigilanza privata – Giusto salario minimo costituzionale – Parametri di raffronto – Appello ad un CCNL diverso da quello di provenienza – Cooperative – CCNL disapplicabile dal giudice – Norma costituzionale generale direttamente applicabile nei rapporti inter parte – Retribuzione sufficiente e proporzionata ex art. 36 Costituzione – Accoglimento

Svolgimento del processo

Con la sentenza in atti n. 407/2022 la Corte d’appello di Torino in accoglimento dell’appello proposto da S.F. Soc. Coop. (già S.S.F. Soc. Coop) riformava la sentenza di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da M.A., ritenuta la non conformità ai parametri dell’articolo 36 della Costituzione del trattamento retributivo applicato, corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione S.F. del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e S.F. del 1/2/2013, aveva accertato il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del CCNL dei dipendenti di proprietari di fabbricati ed ha condannato la datrice di lavoro S.F. al pagamento della somma lorda di euro 2.493,13 a titolo di differenze retributive per il periodo giugno 2000 20 Febbraio 2021 oltre accessori e spese di lite.

La Corte d’appello ha rigettato la domanda del lavoratore sostenendo che la Cooperativa S.F. avesse pacificamente applicato ai propri dipendenti il CCNL Vigilanza Privata e S.F. che atteneva al suo settore di operatività ed era stato stipulato da organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Ha quindi affermato che vanno esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Costituzione quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Inoltre secondo la Corte di appello la retribuzione stabilita dalla norma collettiva acquista, sia pure solo in via generale, una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche del contratto collettivo anche negli interni rapporti fra le singole retribuzioni. Risulta così valorizzato il principio dell’autonomia sindacale art. 39,4 comma della Costituzione alla quale nell’attuale quadro normativo la contrattazione collettiva è demandata in via esclusiva; mentre non era coerente con l’attuale sistema contrattuale rimettere al giudice il potere di sindacare i livelli retributivi al fine di scegliere quello più alto.

Infatti il CCNL S.F. atteneva proprio al settore di operatività della società appellante mentre gli altri contratti collettivi citati come parametri di confronto (CCNL Multiservizi, CCNL terziario, CCNL per i dipendenti di proprietà e di fabbricati) riguardavano comunque settori differenti. Inoltre secondo la Corte la valutazione di adeguatezza della retribuzione effettuata dal primo giudice, con esclusivo riferimento alla retribuzione base, non appariva conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza consolidata dovendosi fare riferimento al trattamento economico globale comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 470/2002 (Cass. 5934/2004). Ne derivava che la lesione dei criteri di proporzionalità e sufficienza non si potesse scrutinare sulla singola clausola retributiva, ma dovesse tener conto del complessivo assetto della retribuzione vale a dire della sua globalità e non delle singole componenti (Cass. n. 162/2009, Cass. 6962/16, 23696/16). Infine, secondo la Corte d’appello, sotto il profilo della sufficienza della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., occorreva rilevare che fosse improprio il riferimento al valore soglia di povertà assoluta indicato dall’ISTAT trattandosi di un valore monetario riguardante la spesa per consumi sostenuta da ciascuna famiglia, determinato in relazione a diverse variabili e che non poteva fornire un criterio utile per l’individuazione della retribuzione sufficiente ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.

Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.A. con cinque motivi di ricorso cui ha resistito con controricorso S.F. Soc. Coop.

Tutte le parti, comprese il pubblico ministero, hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

In via preliminare va rilevato che in data 13.9.2023,il giorno precedente la pubblica udienza di discussione della causa, la difesa della società controricorrente ha comunicato una istanza di rinvio e di rinotifica degli atti motivata dal controllo giudiziario sulla Cooperativa S.F., disposto, in sede penale, in data 19 giugno 2023, dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Milano che ha pure nominato nello stesso provvedimento un amministratore giudiziario.

La richiesta di cui sopra, di rinvio dell’udienza e di notifica degli atti di causa all’amministratore giudiziario nominato in sede penale, non può essere accolta dal Collegio atteso che l’evento dedotto è privo di rilevanza ai fini del regolare svolgimento del giudizio di Cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio (cfr. Cass. n. 3630/21), e non ha avuto comunque conseguenze di sorta sull’esercizio del diritto di difesa della controricorrente che è stata ritualmente assistita dal proprio difensore, anche attraverso la partecipazione all’udienza di discussione della causa.

1.- Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art.36 Cost degli artt. 2099, 2727 e 2729 c.c., nonché dell’art. 3,comma 1 l. 142/2001, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. per aver fatto errata applicazione della presunzione relativa di corrispondenza ai principi costituzionali dei trattamenti economici previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentativi a livello nazionale.

2. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art.36 Cost degli artt. 2099, 2727 e 2729 c.c., nonché dell’art. 3, comma 1 l. 142/2001, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. per avere la Corte d’appello omesso di rilevare che nel settore merceologico della guardiania non armata erano già stati pacificamente applicati (nell’ambito del medesimo appalto allo stesso lavoratore della cooperativa) tre contratti collettivi firmati dalle stesse organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale che hanno poi sottoscritto nel 2013 il CCNL S.F. sicché ad essere assistiti dalla presunzione di conformità ai principi costituzionali di cui all’articolo 36 dovevano essere i trattamenti retributivi contemplati dai tre contratti già esistenti ed applicati.

3.- Con il terzo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 36 Cost, 2099 c.c. e 7, comma d.l. n. 248/2007 conv. in l. n. 31/2008, in relazione all’art.360, 1 comma n. 3 c.p.c. per aver sostenuto che (pur regolando mansioni affini) i CCNL chiamati ad operare come termine di raffronto – ossia il CCNL Multiservizi, il CCNL proprietari di fabbricati ed il CCNL Terziario – non si presterebbero allo scopo rispetto al CCNL S.F. ( che attiene proprio al settore di operatività della società appellante”) in quanto riguarderebbero “settori ben differenti”, e non si presterebbero pertanto ad alcun confronto con il primo ai fini della verifica della conformità all’art. 36 Cost. della retribuzione da questo prevista.

4. Con il quarto motivo si solleva la violazione e falsa applicazione degli artt. 36 Cost. e 2099 c.c. in relazione all’art.360, 1 comma n. 3 c.p.c. per aver affermato che il ricorrente avesse errato a proporre una valutazione di adeguatezza della retribuzione con esclusivo riferimento alla retribuzione base secondo la valutazione in concreto effettuata dal primo giudice che non appariva conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza consolidata; dovendosi fare riferimento al trattamento economico globale comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario come riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 470 del 2002 (Cass. 5934/2004).

5. Con il quinto motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 36 Cost. e 2099 c.c. in relazione all’art.360, 1 comma n. 3 c.p.c. nella parte in cui la sentenza impugnata ha sostenuto che il valore soglia di povertà assoluta calcolato dall’ISTAT non possa costituire un criterio utile per la individuazione della retribuzione sufficiente ex art. 36 della Costituzione.

6. I cinque motivi di ricorso, che per la connessione delle censure sollevate possono essere esaminati unitariamente, sono fondati nei termini di seguito indicati.

E’ pacifico e documentato che il ricorrente abbia agito in giudizio per ottenere il diritto all’adeguamento delle retribuzioni percepite, ritenuta la non conformità ai parametri dell’art. 36 della Costituzione del trattamento retributivo applicato, anche ai sensi dell’art. 3 ,1 comma l. 142/2001 e 7 l. n. 31/2008, corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione S.F. del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e S.F. dell’ 1/2/2013; ed aveva chiesto l’accertamento del diritto a percepire un trattamento salariale non inferiore a quello previsto per il corrispondente livello del CCNL proprietari di fabbricati o in subordine del CCNL Multiservizi o del CCNL Terziario. Ha dedotto di svolgere mansioni di operatore fiduciario e di aver lavorato nel periodo indicato nell’ambito del medesimo appalto con differenti e successive imprese appaltatrici per svolgere le medesime mansioni venendo pagato sempre meno per le stesse mansioni svolte, producendo le relative buste paga ed i contratti di assunzione e collettivi.

7. Tanto premesso, deve essere anzitutto rilevato che non sussiste l’inammissibilità del ricorso per cassazione né per difetto di autosufficienza, né per la mancata trascrizione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, come eccepito dalla controricorrente. Ed infatti i valori che vengono a confronto ed i parametri necessari ai fini della decisione della causa sono tutti documentati e pacifici in quanto risultano dagli atti e dalla stessa sentenza.

Il ricorrente ha trascritto in ricorso i dati retributivi e contrattuali di pertinenza ed i contratti collettivi sono stati indicati e prodotti in questo giudizio fin dal primo grado.

Il lavoratore ha depositato in giudizio le sue buste paga. Tutti i dati retributivi utili ai fini dell’art. 36 Cost. sono stati messi nella causa a disposizione del decidente chiamato al compito di inveramento della disciplina costituzionale del salario minimo.

8. Non esiste l’inammissibilità neppure in relazione alla insindacabilità della valutazione di merito operata dal giudice d’appello sulla retribuzione lorda piuttosto che netta, come afferma la controricorrente; atteso che nella fattispecie non viene in considerazione un giudizio sui fatti della causa ma una valutazione giuridica esterna, da compiere in base ai medesimi fatti accertati, della cui esistenza non si controverte. Non si impugna il quantum di retribuzione, oggetto di un accertamento che nella causa non è stato neppure compiuto nei termini stabiliti dall’art. 36 Cost., ma la violazione dei criteri costituzionali di proporzionalità e sufficienza consumata attraverso quei dati di fatto. Si tratta quindi di operare la valutazione della fattispecie concreta alla stregua della nozione legale di salario minimo (o di giusto salario) esistente nel nostro Paese a livello costituzionale, con i requisiti pure essi giuridici di sufficienza e di proporzionalità espressi al massimo grado dell’ordinamento, in relazione a cui andava effettuato dal giudice di appello un corretto giudizio di sussunzione.

9. Occorre pure premettere, in relazione alle censure prospettate dal ricorrente, che la Corte di appello di Torino non ha operato alcun raffronto nel merito del quantum della retribuzione percepita dal lavoratore per accertare la sua corrispondenza all’art. 36 Cost.

Riportandosi pure ad altri propri precedenti conformi, ha sostenuto invece che nell’attuale sistema contrattuale “vanno esclusi dalla valutazione di conformità ex art.36 Costituzione quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale”. Ha escluso pure che potesse effettuarsi una comparazione tra CCNL riferiti a settori differenti, come quelli dedotti nella causa dal lavoratore ed ha altresì affermato che ai fini dell’art.36 Cost. non potesse operarsi un raffronto come quello improntato nella causa sulla comparazione della paga base oraria prevista dai diversi contratti collettivi di categoria richiamati nella domanda. Infine, nel riformare la sentenza di primo grado ha affermato che nella verifica della sufficienza del salario non potesse utilizzarsi la soglia di povertà assoluta elaborata dall’Istat.

10.- Le precedenti affermazioni della Corte di appello non risultano però conformi con i principi che regolano la materia del salario minimo costituzionale ai sensi dell’art.36 Cost. secondo la giurisprudenza di legittimità e devono essere perciò disattese in questa sede.

11.- Anzitutto va ricordato che secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 24449/2016 l’art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata» garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata»; mentre quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad «una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». In altre parole, l’uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l’altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto».

12. Il giudice, pertanto, non può sottrarsi a nessuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici sulla cui base deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.

13. Per quanto concerne il valore soglia di povertà assoluta, è noto che esso viene calcolato ogni anno dall’Istat relativamente ad un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell’età, dell’area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia; mentre i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa; orientando il trattamento economico non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all’interno dell’Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n.28: “ oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”).

14. Va da sé poi che nell’ambito dell’operazione di raffronto tra il salario di fatto e quello costituzionale il giudice è tenuto ad effettuare una valutazione coerente e funzionale allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità; non potendo perciò assumere a riferimento un salario lordo (che non si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l’indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali).

15. Il livello Istat di povertà pur non costituendo un parametro diretto di determinazione della retribuzione sufficiente, può tuttavia aiutare ad individuare, sotto questo profilo, una soglia minima invalicabile. Esso non è di per sé indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo altresì rispettare l’altro profilo della proporzionalità.

16. In nessun caso la verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, anche attraverso il livello Istat di povertà assoluta, può esaurire l’oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell’art. 36 Cost., come si è invece verificato con il giudizio in oggetto. Essa deve condurre sempre alla determinazione del quantum del salario costituzionale (pars costruens), operazione che, come si vedrà, la univoca giurisprudenza di questa Corte e lo stesso ordinamento (in alcune disposizioni di legge) vuole improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva (v. Cass.17/5/2003 n. 7752, Cass. 8/1/2002 n. 132 Cass. 9/3/2005 n. 5139 Cass. 1/2/2006 n. 2245) ritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità; fatto salvo, oltre ad eventuali disposizioni di legge, l’intervento correttivo del giudice sulla stessa contrattazione collettiva a tutela della precettività dell’art.36 Cost.

17. Quanto ai poteri demandati al giudice nella materia, è opportuno rilevare che, in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento.

Al lavoratore spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002).

Anche quando chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali, il lavoratore è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto, dovendo in mancanza presumersi adeguata e sufficiente la retribuzione corrisposta nella misura prevista in relazione alle mansioni esercitate dal contratto collettivo del settore (Cass. nn. 11881/1990, 163/1986, 4096/1986, 7563/1987). Inoltre, la violazione dell’art. 36 Cost. è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore possa presentare caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non si può assolutamente escludere che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979, sul punto anche Cass. n.1255 del 1976 e n. 2380 del 1972).

18. Nel caso di specie il lavoratore, oltre a richiamare il valore soglia di povertà, aveva dedotto di aver lavorato nell’ambito del medesimo appalto con differenti e successive aziende appaltatrici per svolgere le medesime mansioni venendo pagato sempre meno in applicazione di differenti CCNL per lo svolgimento delle stesse mansioni, producendo le relative buste paga e le relative tabelle salariali.

La Corte d’appello aveva perciò a disposizione tutti i dati occorrenti per effettuare la dovuta determinazione della retribuzione, nel rispetto dei criteri imposti dall’art. 36 Cost., dovendo solo fornire adeguata motivazione in ordine agli elementi in concreto utilizzati “potendo all’occorrenza servirsi anche di una ctu contabile” (v. Cass. n. 12271 del 10/06/2005, Cass. n. 1393 del 18/02/1985).

19. Il compito del giudice non subisce alterazione, rispetto al principio basilare della domanda, neanche quando il lavoratore – che deduca l’insufficienza del salario percepito, descriva il lavoro svolto e produca in giudizio le buste paga – si limiti ad indicare come termine di raffronto quello tra paga oraria percepita e retribuzione protetta a livello costituzionale, atteso che tale indicazione non modifica la natura della domanda svolta in giudizio né l’interesse di cui si chiede protezione, la identificazione dei quali, com’è noto, non richiedono “formule sacramentali”. Vale il principio, sempre affermato da questa Corte, secondo cui (tra le tante Cass. n. 3012/2010) “il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il petitum e la causa petendi”.

In ogni domanda in cui il lavoratore abbia dedotto l’insufficienza della retribuzione in concreto percepita ed abbia richiesto il pagamento di quanto a lui spettante sulla base di un contratto collettivo è implicita quindi la richiesta di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art.36 Cost. senza che possa configurarsi una domanda nuova inammissibile (Cass. n. 7157/2003, Cass. n. 6885/1982, Cass. n. 2439/1974).

19.1. Va ora aggiunto che sotto questo profilo del quantum appare altresì priva di fondamento la tesi, affermata come valida in generale dalla Corte di appello di Torino, secondo cui ai fini dell’art.36 Cost. bisogna prendere a riferimento il trattamento complessivo della retribuzione comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario, in quanto riconosciuto dalla Corte Cost n. 470/2002 e dalla sentenza di questa Corte n. 5934/2004.

In realtà la sentenza della Corte Cost. n. 470/2002 si è occupata del diverso problema del quantum della singola componente retributiva: e cioè della questione se, ai sensi dell’art. 36 Cost., il lavoro straordinario debba essere necessariamente compensato con una maggiorazione di paga, per la penosità del lavoro svolto oltre l’orario normale di lavoro. In questo specifico contesto, nel negare tale copertura costituzionale, la Corte Cost. 470/2002 ha riaffermato il principio secondo cui per giudicare della legittimità costituzionale della retribuzione bisogna fare riferimento al trattamento complessivamente percepito e non soffermarsi sull’entità del singolo emolumento; ma la stessa Corte Cost. non ha mai affermato che per giudicare della compatibilità all’art.36 della Cost. del trattamento complessivo percepito dal lavoratore bisogna tener conto anche del lavoro straordinario. Il che andrebbe escluso in termini generali, sia perché si tratta di un emolumento eventuale e non ordinario del lavoro svolto; sia perché sarebbe incongruo affermarlo quante volte il lavoratore, proprio in ragione della eseguità di base del salario percepito, fosse costretto a svolgere molte ore di lavoro straordinario per raggiungere la soglia minima di conformità richiesta dalla Costituzione.

20. Dalla giurisprudenza che si è via via pronunciata nella materia (v. punti 23 e ss.) si desume inoltre che in sede di applicazione dell’art. 36 Cost. il giudice di merito gode, ai sensi dell’art. 2099 c.c., di una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell’art.36 Cost.

21.- Pertanto l’apprezzamento dell’adeguatezza della retribuzione in concreto resta riservato al giudice del merito (v. fra le altre Cass. n. 20216/2021, Cass. n. 19467/2007; Cass. n. 16866/2008 Cass. 14/6/1985 n. 3586, Cass. 24/6/1983 n. 4326, Cass. 12/3/1981 n. 1428, Cass. 3/4/1979 n. 1926) e la sua determinazione, se effettuata nel rispetto dei criteri imposti dall’art. 36 Cost., e con adeguata motivazione, in ordine agli elementi utilizzati, non è censurabile neppure sotto il profilo del mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva (v. Cass. nn. 19467/2007, n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985).

22. Resta, peraltro, sempre valido il monito formulato dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass.01/02/2006, n. 2245, Cass. 14.1.2021 n. 546) con cui si invita il giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione «giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali».

23.1. Tuttavia, nella variegata casistica giurisprudenziale si registrano, alla luce dei fatti concreti, frequenti deviazioni dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, essendo sempre stato inteso, quello del riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria, come una facoltà piuttosto che un obbligo inderogabile per il giudice di merito, fatto salvo l’onere della motivazione conforme (Cass. n. 5519/2004).

Si è infatti affermato che il giudice:

a.- può individuare d’ufficio (Cass. n. 7528 del 29/03/2010 e n. 1393 del 18/02/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (in difformità dalla domanda) desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale, domandata in linea subordinata, non essendo in tale ipotesi configurabile alcuna violazione ne’ dell’art. 112 cod. proc. civ. (corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) ne’ dell’ultima parte del primo comma dell’art. 420 dello stesso codice (in tema di possibilità di modificazione di domande, eccezioni o conclusioni) e del successivo art. 421 (poteri istruttori del giudice);

b.- quando escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato (di cui la controparte ha contestato l’applicabilità), può tuttavia desumere d’ufficio (Cass. n. 12271 del 10/06/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice;

c.- può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art 2070 c.c. e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (sentenza Cass. n. 7157 /2003, Sezioni unite n. 2665/1997);

d.- fatte salve contrarie disposizioni normative (per es. ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. nn. 19284/2017, Cass.2758/2006, Cass.18761/2005, Cass. n.14129/2004);

23.2. Inoltre, il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n.1987/2791, Cass. n.1985/2193, Cass. n.24449/2016).

Più volte i giudici hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. nn. 14211/2001, 5519/2004, 27591/2005, 24092/2009, 3918/1982).

Mentre, come già rilevato, questa Corte, nella sentenza n. 24449/2016, a seguito del mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita, ha ritenuto legittimo l’adeguamento retributivo quantificato in via equitativa dal giudice di merito “ai sensi dell’articolo 432 c.p.c., in considerazione dell’orario di lavoro giornaliero osservato e dell’entità dei minimi retributivi contrattualmente previsti”.

La stessa giurisprudenza di merito, oltre alla soglia di povertà calcolata dall’ Istat, ha utilizzato come parametri di riferimento l’importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità e l’importo del reddito di cittadinanza; tutte forme di sostegno al reddito che fanno però riferimento a disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione nei termini prima indicati.

24. In virtù dell’integrazione del nostro ordinamento a livello europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale.

24.1 La recente Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea termine” – dei cui contenuti il giudice interno deve tenere conto, secondo le ripetute indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, anche prima della scadenza del recepimento (Corte di Giustizia, sentenza A. et al. causa C-212/04 , sentenza S. causa C-98/09 , sentenza P. causa C-397/01 e C-403/01, obbligo che trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di irretroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale; v. sentenza S., cit., punto 52, e, per analogia, sentenza A. et al., cit., punto 110) – convalida in più di una disposizione il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali. Nel considerando n.28 la direttiva afferma che allo scopo “un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso”; aggiungendo – quanto al livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato – che “ oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.

Nello stesso considerando n. 28 si prevede espressamente che, nella individuazione di parametri utili per determinare l’adeguatezza del salario, “la valutazione potrebbe inoltre basarsi su valori di riferimento associati a indicatori utilizzati a livello nazionale, come il confronto tra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere d’acquisto dei salari minimi”.

24.2 Nella ricerca demandata al giudice interno dall’art. 36 Cost. possono aiutare inoltre i criteri, menzionati nel considerando n.28 (e richiamati anche nell’art.5 della Direttiva), a proposito degli indicatori e valori di riferimento associati per orientare la valutazione degli Stati circa l’adeguatezza dei salari minimi legali: “Gli Stati membri potrebbero scegliere tra gli indicatori comunemente impiegati a livello internazionale e/o gli indicatori utilizzati a livello nazionale. La valutazione potrebbe basarsi su valori di riferimento comunemente impiegati a livello internazionale, quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50 % del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50 % o il 60 % del salario netto medio”.

25. Nella recente ordinanza n. 17698/2022 questa Corte ha richiamato la previsione del salario minimo legale (suggerito dall’Organizzazione internazionale del lavoro – OIL, come politica per garantire una «giusta retribuzione»), insieme alle norme interne sul salario legale dettate per i soci lavoratori di cooperative attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa (art.3,1 comma legge 142/2001 e art.7,4 comma del d.l. 48/2007, convertito in L. 31/2008).

Da quasi un secolo la convenzione OIL n. 26 del 16 giugno 1928 prevede l’introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali “ mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi” (art. 1). Mentre la convenzione OIL n. 131/1970, che l’Italia non ha ratificato, impegna a stabilire un sistema di salari minimi che protegga tutti i gruppi di lavoratori dipendenti (art.1), aggiungendo che “I salari minimi devono avere forza di legge e non potranno essere abbassati” (art. 2). Altre disposizioni in materia sono dettate dall’art. 4 della Carta sociale europea e negli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; ed inoltre dal Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017, che nel punto 6, lettera a) prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso, mentre la lettera b) impegna all’implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia.

La direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 in materia di adeguatezza dei salari, sopra indicata, vuole conseguire gli obiettivi della dignità del lavoro, l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà, dettando il concetto per cui la salvaguardia e l’adeguamento dei salari minimi «contribuiscono a sostenere la domanda interna».

Il primo obiettivo dichiarato della Direttiva è quello della «convergenza sociale verso l’alto» dei salari minimi (art. 1 comma 1); si precisa che i minimi debbono essere “adeguati” per conseguire «condizioni di vita e di lavoro dignitose». La direttiva vuole perciò un miglioramento dei minimi più bassi, perché si avvicinino ai più alti.

26. Come già rilevato, utile allo scopo si rivela l’individuazione percentuale del salario medio e/o mediano, che nel nostro Paese può essere individuato anche attraverso i dati Uniemens censiti dall’INPS (mentre sui c.d. working poorsv. da ultimo XXII Rapporto INPS, pag.99 e ss. presentato al Parlamento il 13 settembre 2023);

suggerimento che il giudice interno può dunque valorizzare ai fini della complessiva valutazione di conformità nei termini equitativi richiesti da questa giurisprudenza ex art. 36 Cost., anche ai sensi dell’art. 432 c.p.c.

27. Le censure sollevate col ricorso investono inoltre direttamente il confronto l’art. 36 Cost. e richiedono di individuare quindi il concetto di salario proporzionato e sufficiente. La soluzione delle questioni sollevate sotto questo profilo non richiede di allontanarsi dal collaudato e massiccio orientamento giurisprudenziale elaborato in materia di equità salariale dalla Corte Costituzionale e da questa Corte di legittimità.

28. Secondo quanto affermato in epoca risalente dalla Corte costituzionale quello al salario minimo costituzionale delineato nell’art. 36 integra un diritto subiettivo perfetto (sentenza n. 30/1960) che “deve rispondere a due fondamentali e diverse esigenze” indicate dalla norma (Corte cost. sentenza n. 74 del 1966, n. 559 del 1987).

La norma non si limita a stabilire l’an del diritto al salario, ma attribuisce a chi lavora il diritto ad un salario con contenuti qualificanti che fanno riferimento al quantum del corrispettivo oggetto dell’obbligazione contrattuale; si tratta di indicazioni immediatamente precettive idonee a conformare le clausole relative al corrispettivo del lavoro contenute all’interno di ciascun contratto di lavoro.

Tali indicazioni giuridiche (insieme ad altre norme costituzionali pure riferite o riferibili alla retribuzione, come gli artt. 3, 37, 38, 39, 40 e 41 Cost.) interpellano anzitutto gli agenti negoziali (associazioni sindacali e datoriali) in quanto massima autorità salariale.

Si rivolgono inoltre al legislatore che deve operare politiche di valorizzazione e di sostegno al reddito in funzione della promozione individuale e sociale dei lavoratori e delle indeclinabili esigenze familiari a cui lo stesso reddito deve far fronte

Il giudice è chiamato ad intervenire in ultima istanza, per assicurare, nell’ambito di ogni singolo rapporto di cui è chiamato a conoscere, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello generale nella normativa costituzionale; ed in caso di violazione ripristinare la regola violata dichiarando la nullità della clausola individuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche dell’art. 2099, 2° comma e dell’art. 1419,1 comma c.c.)

29. Per ciò che riguarda, in particolare, l’opera compiuta in materia dalla giurisprudenza è noto che secondo una elaborazione che dura oramai da oltre 70 anni (Cass. 12.5.1951 n. 1184; Cass. 21.2.1952, n. 461; 27.2.1958 n.663, 15 febbraio 1962 n. 308) questa Corte di legittimità ha affermato che il giudice chiamato ad adeguare – in base all’art. 2099, 2° comma c.c. – il trattamento retributivo all’art. 36 della Cost. può fare riferimento – come parametri esterni per la determinazione del giusto corrispettivo – alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, i quali fissando standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, una efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute.

30. Tutto questo avviene ovviamente nei limiti e con le difficoltà, le variabili e gli opportuni adattamenti di un’operazione di estensione di una regola generale all’interno di ogni concreta controversia individuale; attesa la carenza a tutt’oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora nel nostro Paese il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale all’infuori di una controversia processuale (o di un accertamento ispettivo).

31. Ribadito che secondo la comune interpretazione mai derogata da questa Corte, il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario, va anche detto che attraverso questo sistema si è pure temperata, in concreto, in mancanza dell’attuazione dell’art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già richiamata sentenza delle Sez. Unite n. 2655/1997, secondo cui l’ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare.

Pur in mancanza dell’applicazione ai contratti di diritto comune dell’art. 2070 c.c. che vincolerebbe la regolamentazione collettiva all’area professionale di pertinenza, si è infatti ammesso comunque che il lavoratore possa appellarsi ad un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l’applicazione bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto (Sez. Un. 2665/1997; Cass. nn. 7157/2003, 9964/2003, 26742/2014, 4951/2019).

32. Deve essere ora evidenziato che l’oggetto dell’intervento giudiziale può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza; atteso che, per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento.

In materia di uscita dal contratto nazionale di categoria, si veda da ultimo Cass. n. 17698/2022 (che richiama le convergenti pronunce di questa Corte nn. 4622/2020, 4621/2020, 9862/2019, 9005/2019, 7047/2019, 5189/2019); nonché, in una controversia analoga alla presente, con precipuo riferimento alla fuoriuscita dal CCNL S.F. oggetto di questa pronuncia, v. Cass. n. 20216/2021.

33. Quello appena richiamato integra un orientamento già consolidato a cui questo Collegio intende dare continuità nella decisione di questa causa, in quanto conforme alle regole ed allo spirito della nostra Costituzione, ed a cui occorre apportare solo alcune limitate precisazioni per fugare taluni dubbi e chiarire il consolidato orientamento di legittimità a fronte della realtà di fatto che si è venuta a determinare negli ultimi tempi nel nostro Paese, e dentro la quale si colloca oggi la questione della sindacabilità del contratto collettivo nazionale di categoria sottoscritto da OO.SS. maggiormente rappresentative, che è oggetto della controversia.

34. Si tratta di una realtà che è già stata posta più volte all’attenzione della magistratura del lavoro, della magistratura amministrativa e persino della magistratura penale, chiamate ad interloquire in diverso modo sulla misura dei salari fissati in sede collettiva, anche ad opera di organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Ciò ha creato una rinnovata attenzione dialettica sul tema anche da parte della dottrina, sollecitata da ultimo dall’intervento della Direttiva già in precedenza richiamata, in materia di salari adeguati all’interno dell’Unione Europea, n. 2022/2041 del 19 ottobre scorso.

35. È noto come diverse questioni vengano dibattute in questo contesto, quali, in sintesi: a. la frammentazione della rappresentanza e la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di “contratti pirata”); b. la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie; c. la conseguente proliferazione del numero dei CCNL. – Il CNEL ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbero stati stipulati da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti; d. la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro ed la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi; e. il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai cambiamenti economici (l’ultimo Report del CNEL denuncia come scaduti 563 contratti del settore privato, pari al 60%); f. una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari.

Si parla notoriamente di “lavoro povero”, ovvero di “povertà nonostante il lavoro”, principalmente dovuto, come si è detto, alla concorrenza salariale “al ribasso” innescata dai fattori suindicati, in particolare dalla molteplicità dei contratti all’interno della stessa contrattazione collettiva; la quale, pur necessaria, quale espressione della libertà sindacale e per la tutela dei diritti collettivi dei lavoratori, può entrare in tensione con il principio dell’art. 36 della Costituzione che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro.

36. Nel caso di specie si deduce che in virtù dell’applicazione allo stesso lavoratore ricorrente, da un cambio di appalto all’altro, di CCNL sempre diversi e peggiorativi – sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative – si è prodotto il risultato di una diminuzione della retribuzione pur nell’identità dell’attività di lavoro svolta da esso e dalla stessa datrice di lavoro.

37.- Naturalmente pur in questo contesto va sempre tenuto presente il monito (Cass. 01/02/2006, n.2245, Cass. 14.1.2021 n. 546) secondo cui il giudice deve sempre approcciarsi alla contrattazione collettiva “con grande prudenza e rispetto”, attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale, un principio garantito dalla Costituzione e anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (v. spec. Corte EDU, Demir e Baykara c. Turchia [GC], no. 34503/97, 12 novembre 2008).

38. Detto questo, però, deve essere ricordato che nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere. E questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi, in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale; in particolare, quando la presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o nulla rappresentativi (si veda ad es. in materia di trattamenti contrattuali collettivi dei c.d. riders la circolare del Ministero del lavoro del 19.11.2020) diventa un fattore di destabilizzazione, mettendo in discussione l’attitudine alla parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende. Questo limite diventa pertanto cogente quando – come ha avvertito la Corte cost. nella nota sentenza n. 51/2015, dedicata alla disciplina del salario collettivo dei soci di cooperativa – venendo meno alla sua storica funzione, la stessa contrattazione collettiva sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza invece “di contrastare forme di competizione salariale al ribasso”.

39. Pertanto, pur di fronte alla situazione di crisi in parte nuova che si è venuta determinando, ad avviso di questa Corte, non cambia, e non può cambiare considerata l’inderogabilità dell’art. 36 Cost., la sperimentata regola della presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale, dovendosi solo chiarire che essa opera non solo “in mancanza di una specifica contrattazione di categoria”, come talvolta si è affermato nella giurisprudenza di merito (richiamando erroneamente la sentenza n. 7528/2010 di questa Corte), ma anche “nonostante” una specifica contrattazione di categoria.

L’orientamento appena ribadito non è in realtà in contraddizione neppure con la citata sentenza n. 7528 del 29/03/2010, in cui il riferimento alla mancanza di una specifica contrattazione di categoria come presupposto del potere determinativo del giusto salario ex art 36 Cost. da parte del giudice, configura un mero obiter dictum nell’economia della decisione che risulta invero resa in un caso in cui il datore di lavoro non aveva applicato alcun contratto collettivo di diritto comune ed in cui perciò i medesimi giudici di merito avevano dovuto fare riferimento ad una specifica contrattazione collettiva secondo i principi qui ribaditi ab imis.

40.- Diversa è la fattispecie, di cui si discute invece in questo giudizio, che si presenta allorché il giudice deve sottoporre a valutazione un salario determinato a mezzo di una contrattazione collettiva che il lavoratore deduca essere in contrasto con l’art. 36 della Cost. Ma anche in tale diversa fattispecie non muta la regola di giudizio sempre affermata da questa Corte (Sez. Unite 2665/1997; Cass. n.n. 7157/2003, 9964/2003, 26742/2014, 4951/2019), dovendo applicarsi comunque l’orientamento che pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL non esclude di sottoporli a controllo e di doverli disapplicare allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice.

41.- La stessa Corte costituzionale, nella notissima sentenza n. 106 del 1962, pronunciandosi sulla proroga della Legge Vigorelli, quella che estendeva i minimi contrattuali erga omnes per legge, ha del resto già affermato che non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell’attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in uno stato di mancata attuazione dell’art.39 Cost).

42. E’ opportuno ora evidenziare come si sia sempre escluso che questa operazione di riferimento esterno alla contrattazione, come parametro di orientamento dell’equità giudiziale ex art.2099 c.c., valga a violare l’art. 39 della Costituzione e la procedura ivi regolata per attribuire efficacia erga omnes della contrattazione collettiva; e neppure il principio di libertà e di autonomia sindacale.

Nessuna lesione al principio di libertà sindacale è predicabile (al contrario di quanto sostenuto in qualche sentenza di merito), nemmeno quando il giudice non applichi un CCNL di categoria sottoscritto dalla associazione maggiormente rappresentative ancorché richiamato in una legge. Posto che qui, nella materia retributiva, non viene in discussione la libertà sindacale nel momento in cui, come si è visto, la stessa norma costituzionale (o anche una norma ordinaria) impone un parametro esterno al rapporto di lavoro ed ad esso eteronomo (anche a soggetti non obbligati all’applicazione del CCNL o anche al di fuori del CCNL altrimenti legittimamente applicato) allo scopo di attuare il principio costituzionale della giusta retribuzione riconosciuto in capo ad ogni lavoratore; anche al fine di un equilibrato contemperamento dei diversi interessi di carattere costituzionale (quand’anche venisse attuato l’art.39 della Cost.; cfr. Corte Cost. n. 106 del 1962, cit.).

43.- La nostra Costituzione ha accolto infatti una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all’autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi. I due requisiti di sufficienza e proporzionalità costituiscono limiti all’autonomia negoziale anche collettiva, così come del resto accade nei commi successivi dell’art. 36 che, come è stato giustamente osservato, non sempre vengono adeguatamente valutati insieme al primo comma laddove appongono ulteriori limiti costituzionali alla durata sia della giornata lavorativa, sia della settimana e dell’anno di lavoro.

Pur con tutta la prudenza con cui bisogna approcciare la materia retributiva ed il rispetto della riserva di competenza attribuita normalmente alla autorità salariale massima, rappresentata dalla contrattazione collettiva, non può che ribadirsi perciò come i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione siano gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva ed abbiano contenuti (anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall’esterno nella determinazione del salario.

44.- Considerata ora la presenza di una disciplina legale del salario minimo nel settore in cui opera la controricorrente che è una cooperativa, deve essere pure avvertito che, nel medesimo settore del lavoro in cooperativa, la normativa (art. 3, 1° comma, e art. 6, comma 2, della legge n. 142/2001, modificata dall’art. 1, comma 9, lett. f), della l. n. 30/ 2003; art. 7, 4° comma d.l. 248/2007, convertito in dalla l. n. 31/2008) generalizza, rendendolo cogente, il meccanismo giurisprudenziale di adeguamento del salario ex art. 36 Cost. prevedendo l’obbligo del rispetto di standard minimi inderogabili validi sul territorio nazionale individuati nei trattamenti complessivi fissati dai contratti collettivi conclusi dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria.

45.- Ma proprio in quanto disposta in attuazione dell’art.36 della Cost. (secondo l’importante pronuncia della Corte cost. del 2015) neppure tale determinazione per via legale del salario – attraverso la contrattazione collettiva sottoscritta dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative – può portare a violare i contenuti sostanziali precettivi dell’art. 36 Cost. di cui dovrebbe garantire invece l’attuazione.

In altri termini anche i salari dettati dalla contrattazione collettiva applicabile alle cooperative, secondo la legge n. 142/2001 e la legge n. 31/2008, possono essere disapplicati dal giudice ed il trattamento retributivo annullato e sostituito con uno più congruo, che rispetti il minimo costituzionale (in questi termini da ultimo v. le già citate Cass. nn. 17698/2022, 4622/2020, 4621/2020, 9862/2019, 9005/2019, 7047/2019, 5189/2019, n. 20216/2021).

Lo stesso potrebbe accadere per le retribuzioni stabilite in forza di analoghe norme di rinvio alla contrattazione collettiva previste per i lavoratori degli enti del Terzo settore dall’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 117/2017; per il settore del trasporto aereo dall’art. 203, comma 1, d.l. n. 34/2020; per i lavori nei contratti pubblici dal d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, contenente il nuovo Codice dei contratti pubblici, adottato in attuazione dell’art. 1, legge 21 giugno 2022, n. 78 (in particolare all’art. 11 ed all’art.119. Si tratta tutte di ipotesi in cui la legge garantisce ai lavoratori, come ai soci di cooperative, un trattamento complessivo non inferiore a quelli minimi stabiliti dal Contratto Collettivo Nazionale del settore stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (c.d. contratto leader).

46. Sostenere che nelle medesime ipotesi la parte retributiva del contratto collettivo di diritto comune, sulla cui scorta viene determinata la retribuzione, si sottragga al sindacato del giudice e si imponga sempre e comunque, anche senza il vaglio di conformità all’art. 36 Cost., a prescindere dall’attuazione dell’art. 39 Cost., non già come paramento esterno di comparazione ex art. 36 Cost, ma come disciplina cogente del rapporto di lavoro per la parte retributiva non sindacabile e non assoggettabile a verifica di compatibilità da parte del giudice, esporrebbe tale tesi e le stesse leggi sopra indicate ad una duplice censura di incostituzionalità: sia sotto il profilo della violazione dell’art. 36 Cost., sia sotto il profilo dell’art. 39 (come risulta dalle due già citate sentenze della Corte cost. 51/2015 e 106/1962).

47. Tutto ciò rende pure evidente come l’aporia tra il trattamento retributivo previsto nella contrattazione collettiva e i contenuti precettivi dell’art. 36 Cost. di cui si discorre in questo giudizio possa prodursi anche per il tramite di una legge che rinvii alla contrattazione; e come tale contraddizione non sia del tutto idonea ad essere risolta con il solo sostegno alla contrattazione nazionale maggiormente rappresentativa (come ad es. nella legge 142/2001 e nella l. n.31/2008); non potendosi mai escludere che il trattamento retributivo erogato in forza della stessa possa attestarsi nel caso concreto al di sotto del minimo costituzionale.

48. Ciò di cui si discute in questa causa costituisce anzi la riprova più evidente di quanto appena affermato essendo la ricorrente una cooperativa soggetta alla legge n. 142/2001, che applica, essendone obbligata dalla legge n. 31/2008, un CCNL sottoscritto da OO.SS. maggiormente rappresentative.

La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone dunque in ogni caso, ed anche in questa causa in cui il giudice è stato chiamato a sindacare il salario applicato da una cooperativa di lavoro ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l’applicazione.

D’altra parte, se, come già affermato dalla stessa Corte costituzionale (n. 51/2015), questo rinvio legale alla CCNL non vale come vincolo esterno e superiore al giudice (e proprio per questo non viola l’art. 39 Cost.), esso deve di necessità rimanere un parametro che soggiace alla valutazione giudiziale e che come tale è suscettibile di essere disatteso in conformità alla Costituzione.

49. Risulta pertanto che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto. Sicché una legge (come quella in tema di cooperative ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 ed all’art 39 Cost.

Non potendo il giudice abdicare a questa funzione di controllo, solo si ripropone semmai il problema dell’orientamento della sua discrezionalità motivata, in relazione all’applicazione di una norma costituzionale a contenuto generale direttamente applicabile nei rapporti inter partes ed inoltre il tema della ricerca di un quid pluris congruo e funzionale allo scopo, rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola contrattazione, che si riveli in concreto inappagante.

50. Ma, come si è visto sopra (punti n.n. 23,24,25,26), sono molteplici le pronunce di questa Corte in cui il giudice è stato abilitato, nella ricerca del parametro di orientamento, a sostituire un contratto collettivo ad un altro ritenuto maggiormente idoneo ad attuare il contenuto delle direttrici costituzionali sul salario minimo nel singolo caso concreto; ma anche a correggerne i contenuti (in diminuzione ed in aumento), attraverso il ricorso a criteri idonei e ad indici nazionali (ed oggi anche europei) comunemente utilizzati per l’individuazione del salario adeguato, con l’unico obbligo della motivazione congrua.

51. Guardando, sulla scorta di tali premesse, al caso specifico occorre rilevare che al lavoratore ricorrente sono stati applicati, nel corso del tempo, diversi CCNL pur svolgendo egli sempre il medesimo lavoro nell’ambito dell’appalto “C.”.

La Corte di appello si è sottratta a qualsiasi comparazione tra i diversi trattamenti retributivi indicati; mentre il giudice di merito nei casi critici di determinazione del giusto salario ai sensi dell’art 36 della Costituzione (a fronte di una pluralità di contratti collettivi ma anche di un unico contratto collettivo) è chiamato ad adoperare una griglia di criteri comparativi, avendo come punto di partenza la contrattazione collettiva, e potendo fare riferimento anche a contratti di settore e categorie affini relativamente alle analoghe mansioni in concreto svolte (Cass. n.n. 17698/22, 38666/21).

52. Questo ultimo criterio consente anzitutto di mantenere un riferimento, in prima battuta, all’interno della contrattazione collettiva ai fini dell’individuazione del paramento di attuazione della giusta retribuzione ex art 36 Cost. anche quando viene sindacato e disapplicato un singolo contratto collettivo che si assume non conforme al precetto costituzionale, in conformità al tradizionale orientamento di questa Corte. Vale in proposito lo stesso letterale contenuto dell’art. 3 della legge 142/2001 il quale prevede all’art. 3, comma 1 che, al fine di determinare il trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, cui il socio lavoratore di cooperativa ha diritto, si possono applicare anche contratti collettivi “della categoria affine” “per prestazioni analoghe”.

53. Tali esplicite indicazioni normative (“categorie affine”, “per prestazione analoghe”, “trattamento economico complessivo”), per la loro congruità nella prospettiva dell’individuazione della giusta retribuzione costituzionale ex art 36 Cost., possono essere impiegate dal giudice non solo quando essa riguardi quella di un socio lavoratore di cooperativa, ma anche quando la retribuzione da adeguare riguardi un mero lavoratore subordinato (non socio) che operi all’interno di una cooperativa.

Non emergono in proposito ragioni plausibili per operare distinzioni acconce nella soluzione della problematica in discorso.

54. Per quanto riguarda il trattamento dovuto all’interno di una cooperativa, come la controricorrente, rileva inoltre quanto già affermato da questa Corte in precedenti pronunce (v. da ultimo Cass. n.17698/22) allorché ha correttamente rilevato che in materia di cooperativa il “trattamento economico complessivo” è il minimo che non bisogna derogare e che “l’art. 3, L. 142/2001 e l’art. 7, L. 31/2008, dichiarano applicabile ai soci lavoratori di cooperativa il “trattamento economico complessivo” non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva sottoscritta dalle organizzazioni sindacali dotate dei requisiti di maggiore rappresentatività comparativa e l’art. 118, comma 6, cit. impone di “osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale in vigore nel settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni”.

Ha inoltre evidenziato la suddetta pronuncia n.17698/22 che “dal combinato disposto delle norme appena richiamate emerge come il parametro rappresentato dal trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva debba intendersi “complessivo”, quindi inclusivo della retribuzione base e delle altre voci aventi natura retributiva, ed inoltre come tale trattamento rappresenti un limite al di sotto del quale non sia possibile scendere”. Questa Corte (Cass. 17583/2014; 19832/2013) ha già affermato come, in tema di società cooperative, “nel regime dettato dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, al socio lavoratore subordinato spetta la corresponsione di un trattamento economico complessivo (ossia concernente la retribuzione base e le altre voci retributive) comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine”.

Dall’art. 3,1° comma, della legge 142/2001 si desume perciò che il socio lavoratore ha diritto ad un trattamento economico complessivo, comunque, non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine.

55.- In ragione di quanto fin qui osservato il ricorso deve essere quindi accolto e la decisione deve essere cassata, rimettendosi nuovamente al Giudice del merito, indicato in dispositivo, la valutazione circa la conformità al parametro costituzionale delle singole retribuzioni corrisposte.

Nella decisione della lite il giudice si atterrà ai principi sopra affermati ed in particolare ai seguenti principi di diritto:

1.- Nell’attuazione dell’art. 36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.

2.- Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.

3.- Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099,2° comma c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

56. Il giudice del rinvio procederà altresì alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

percepita dal lavoratore per accertare la sua corrispondenza all’art. 36 Cost.

Retribuzione sufficiente e contratto collettivo
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