Il recesso per superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro intimato computando anche le assenze per malattia dovute alla disabilità è nullo per violazione del principio di parità di trattamento.

Nota ad App. Napoli 17 gennaio 2023, n. 168

Sonia Gioia

In materia di discriminazioni sul luogo di impiego, l’applicazione della medesima disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto nei confronti sia dei lavoratori “normodotati” affetti da patologie transitorie che di quelli divenuti, nel corso del rapporto di lavoro, disabili per malattia grave ed irreversibile rappresenta una forma di discriminazione indiretta, dal momento che tale prassi, seppur apparentemente neutra, penalizza in misura significativamente maggiore i prestatori invalidi che, rispetto agli altri colleghi, sono statisticamente più esposti al rischio di non essere presenti al lavoro per malattie legate alla disabilità.

Lo ha precisato la Corte d’Appello di Napoli (17 gennaio 2023, n. 168, conforme a Trib. Napoli Nord n. 2832/2022) in relazione ad una fattispecie concernente la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente, portatore di handicap, per superamento del periodo di comporto, nel cui computo la società datrice aveva incluso anche i periodi di assenza riconducibili alla condizione di disabilità (nello specifico, sclerosi multipla) e i giorni di ferie.

In primo grado, il Tribunale aveva dichiarato la nullità del recesso sul presupposto che l’applicazione nei confronti del dipendente con handicap della normativa pattizia che prevede per tutti i lavoratori un periodo di comporto di “180 giorni in un anno solare” (ex art. 186 CCNL Commercio), senza l’adozione di alcun accorgimento a tutela dei lavoratori invalidi, comportava un’illegittima disparità di trattamento in danno di questi ultimi.

La società datrice, nel proporre appello avverso tale pronuncia, sosteneva, invece, la legittimità del provvedimento espulsivo evidenziando che “si era limitata ad applicare” la normativa contrattuale, “che non poteva essere rimesso al giudice di costruire una ipotesi di comporto senza fine” e che “l’unico accorgimento che il datore di lavoro avrebbe potuto adottare e aveva adottato era stato attendere che le condizioni di salute del proprio dipendente migliorassero”, nonostante l’assenza di qualsiasi collaborazione da parte dello stesso prestatore che non aveva mai comunicato la propria condizione di invalidità.

Al riguardo, la Corte d’Appello ha osservato che si ha una discriminazione indiretta, vietata ai sensi dell’art. 2, lett. b), Direttiva 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro”) e art. 2, co. 1, lett. b), D. Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuativo della citata Direttiva), quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere i soggetti portatori di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone, salvo che tale diversità di trattamento sia giustificata da una finalità legittima e a condizione che i mezzi per il perseguimento di tale obiettivo siano appropriati e necessari (CGUE 18 gennaio 2018, C- 270/16).

Ai fini dell’accertamento della discriminatorietà di un atto, non è richiesto che il comportamento datoriale sia intenzionale, poiché la discriminazione opera obiettivamente, vale a dire in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.

L’imprenditore, allo scopo di garantire alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri prestatori, è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli”, vale a dire “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato” (art. 5, Direttiva cit. e art. 3, co. 3 bis, D. Lgs. n. 216 cit.).

Da ciò discende che l’applicazione del medesimo periodo di comporto a tutti i lavoratori, senza l’adozione di misure adeguate a tutela dei disabili (come la previsione di un comporto più lungo per questi ultimi), costituisce una violazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2, Cost.) e dà luogo ad una discriminazione indiretta, poiché tale prassi, “equiparando in modo non consentito” lo stato di handicap (consistente in una “menomazione permanente non destinata alla guarigione, ma nella maggior parte dei casi, al peggioramento dei postumi”) ad una comune malattia (“intesa come episodio di inabilità temporanea destinato alla guarigione”), pone il lavoratore disabile in una situazione di oggettivo svantaggio.

Sicché, per assicurare il rispetto del principio di parità di trattamento dei lavoratori con handicap devono essere computate, ai fini del comporto, solo le assenze per eventi morbosi estranei alla condizione di disabilità, con conseguente espunzione di quelle direttamente collegate a quest’ultima (in questo senso, v. anche Trib. Parma 9 gennaio 2023, n. 1, in q. sito con nota di S. GIOIA, e giurisprudenza ivi richiamata).

Nel caso di specie, il Collegio ha stabilito che la normativa pattizia, prevedendo un regime indifferenziato tra lavoratori abili e disabili in materia di comporto, introduce una discriminazione indiretta, sicché il licenziamento intimato in applicazione di tale previsione è nullo per contrasto all’art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 30 (c.d. Statuto dei Lavoratori),  con conseguente reintegrazione del dipendente e condanna della società datrice al risarcimento del danno, a nulla rilevando la conoscenza o la conoscibilità, da parte dell’azienda, dello stato di invalidità.

Ciò, tenuto conto del fatto che l’esclusione dal computo del periodo di comporto delle assenze dovute alla disabilità non costituisce “un carico eccessivo per il datore di lavoro, che ha a disposizione tutta una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare”, tra cui quello di controllare in modo costante l’idoneità alla mansione del disabile, e la circostanza che la società datrice, limitatasi ad “applicare alla lettera la norma contrattuale collettiva”, aveva omesso di adottare gli accomodamenti ragionevoli previsti dalla legge, quali, ad esempio, la riduzione dell’orario di lavoro, l’avviso dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto, la possibilità di fruire dell’aspettativa non retribuita o delle ferie residue.

La Corte, infine, ha ulteriormente osservato che, nella fattispecie, il comporto non poteva dirsi neppure superato dal momento che la società datrice aveva erroneamente computato come assenze per malattia anche i giorni di ferie, dichiarando, di conseguenza, la nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa (ex art. 2110, co. 2 c.c.) in quanto intimato prima della fine del periodo massimo di conservazione del posto (Cass. S.U. n.  12568/2018, con nota in q. sito di M.N. BETTINI).

Ciò, sul presupposto che i giorni di ferie non sono computabili ai fini del comporto poiché  il dipendente malato e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie (Cass. n. 19062/2020; Cass. n. 27392/2018, con nota in q. sito di A. TAGLIAMONTE, Ferie e periodo di comporto; Cass. n. 8834/2017).

Lavoratore disabile: licenziamento per superamento del comporto
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